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Polizze vita e unit linked: cosa resta davvero della promessa fiscale
Per anni, nella pianificazione patrimoniale italiana, la polizza vita è stata raccontata con un lessico semplice e seducente: protezione, rapidità, fiscalità, successione senza attriti. Un contenitore “speciale”, capace di tenere insieme bisogni diversi: far crescere il capitale, proteggerlo, trasferirlo agli eredi in modo efficiente, schermarlo da imprevisti e conflitti.
Quella promessa, nel tempo, ha avuto una sua base concreta soprattutto nelle polizze tradizionali (ramo I): contratti con gestione separata, capitale almeno parzialmente garantito, bassa volatilità, una logica assicurativa autentica. Poi però il mercato – e la distribuzione – hanno progressivamente spostato il baricentro su prodotti più finanziari che assicurativi: unit linked e multiramo con componenti rilevanti in fondi, spesso con costi strutturali più elevati e una complessità che pochi risparmiatori riescono davvero a governare.
Nel frattempo sono cambiati due fattori decisivi, oggi impossibili da ignorare:
- La giurisprudenza ha iniziato a guardare con maggior attenzione alla sostanza dei contratti, soprattutto quando l’elemento finanziario prevale su quello assicurativo.
- Lo scenario di mercato è diventato più “adulto”: tassi risaliti rispetto agli anni di denaro quasi gratuito, volatilità più frequente, premi al rischio meno lineari.
Il risultato è che la domanda corretta non è più “la polizza conviene?”, ma: cosa resta davvero, oggi, della promessa fiscale e protettiva, e a quali condizioni.
La promessa originaria: perché le polizze vita hanno avuto successo
La polizza vita è stata per lungo tempo una risposta elegante a tre esigenze concrete:
- Trasferimento rapido del capitale agli eredi tramite designazione beneficiari, spesso con iter più snello rispetto alla gestione successoria tradizionale.
- Trattamento fiscale favorevole in molte casistiche: tassazione limitata alla componente di rendimento e, storicamente, un racconto commerciale centrato sull’idea di “efficienza” nel passaggio generazionale.
- Percezione di protezione: l’idea di uno strumento “altro” rispetto al conto e al dossier titoli, con una cornice assicurativa.
Questi elementi, nella forma assicurativa più genuina, hanno avuto una loro coerenza. Il problema nasce quando il contenitore resta “assicurativo” di nome, ma la sostanza diventa un investimento finanziario impacchettato, con costi e vincoli che non sempre vengono percepiti.
Il punto di svolta: quando l’assicurazione diventa finanza (e il confine si assottiglia)
Le unit linked sono polizze in cui il capitale è collegato a quote di fondi o OICR interni/esterni. In altre parole: l’andamento dipende dai mercati, non da una gestione separata con logiche assicurative tradizionali.
Qui si innesta la prima frattura:
- Se il rischio finanziario resta sostanzialmente in capo al cliente,
- se la prestazione assicurativa è minima o solo formale,
- se la funzione “vita” è un guscio,
allora diventa naturale che anche chi giudica (e non solo chi investe) inizi a chiedersi se siamo davanti a un’assicurazione o a un investimento travestito.
Ed è esattamente questo il nodo: la promessa di “specialità” regge quando c’è una specialità reale; quando invece il contenitore serve soprattutto a distribuire un prodotto finanziario con un’etichetta più rassicurante, quella promessa inizia a perdere forza.
Giurisprudenza: la direzione è chiara, anche se non sempre lineare
Negli ultimi anni, diverse pronunce hanno messo l’accento su un concetto semplice: conta la sostanza, non l’etichetta. Quando la polizza è prevalentemente finanziaria, alcuni “scudi” tradizionalmente associati alle polizze vita vengono messi sotto stress interpretativo, soprattutto in presenza di elementi che fanno apparire il contratto come un investimento puro.
Senza entrare in tecnicismi, l’idea di fondo è questa:
se la componente assicurativa è marginale e la struttura è assimilabile a un investimento, diventa più difficile sostenere che tutto ciò che discende dal “mondo assicurativo” valga automaticamente e incondizionatamente.
Questo non significa che “le unit linked non valgono più nulla” o che “sono tutte uguali”. Significa una cosa più utile per chi investe: non si può comprare una polizza finanziaria pensando di avere, per definizione, gli stessi benefici e le stesse tutele di una polizza assicurativa tradizionale.
La seconda svolta: i nuovi scenari di mercato hanno ribaltato la narrativa
C’è poi un cambiamento che non dipende da giudici o norme: dipende dai mercati.
Per oltre un decennio, con tassi a zero e liquidità abbondante, molte inefficienze sono state “coperte” dalla marea crescente degli asset finanziari. In quel mondo:
- la volatilità veniva spesso riassorbita,
- la ricerca di rendimento spingeva a comprare “qualcosa” pur di avere un numero positivo,
- i costi sembravano meno visibili perché il mercato saliva.
Oggi il quadro è diverso. Con tassi più alti e maggiore dispersione dei rendimenti, il costo torna protagonista e la volatilità non è più un incidente raro: è un elemento strutturale del viaggio.
Questo impatta le unit linked in modo diretto perché:
- il sottostante è finanziario,
- i costi si sommano (costi del contratto + costi dei fondi + eventuali commissioni di gestione e performance),
- e la “promessa fiscale” rischia di diventare una coperta corta se la crescita del capitale viene erosa prima ancora di arrivare al passaggio generazionale.
Il tema che pochi mettono al centro: il costo come rischio generazionale
Nella pianificazione successoria, il rischio più sottovalutato non è sempre la volatilità. Spesso è l’erosione.
Immagina due strade, entrambe con obiettivo “lasciare qualcosa agli eredi”:
- Strada A: strumento finanziario efficiente (ETF, fondi a basso costo, portafoglio ben costruito) + pianificazione giuridica coerente (testamento, patti, donazioni dove opportuno, gestione liquidità e beneficiari su strumenti bancari).
- Strada B: unit linked con costi strutturalmente superiori, sottostanti spesso non così efficienti, vincoli contrattuali e opacità percettiva.
La domanda non è ideologica. È matematica:
se pago di più ogni anno, devo ottenere qualcosa di più ogni anno (o comunque un beneficio molto chiaro e robusto) per giustificarlo.
Altrimenti la fiscalità rischia di diventare un’illusione ottica: risparmio su un fronte e perdo dall’altro, con la differenza che la perdita avviene in silenzio, anno dopo anno, prima ancora di arrivare alla successione.
La liquidità: quando “successorio” e “finanziario” entrano in conflitto
Un altro equivoco frequente: pensare che una polizza sia sempre uno strumento liquido e “pronto”.
In realtà molte unit linked e multiramo:
- hanno finestre di riscatto, penali o costi impliciti,
- hanno tempi tecnici non immediati,
- e, soprattutto, possono costringere a disinvestire in momenti di mercato sfavorevoli.
E qui si crea la frizione più dolorosa:
uno strumento venduto come “soluzione familiare” può trasformarsi in una vendita forzata quando la famiglia ha bisogno di liquidità, magari proprio nel momento peggiore.
La pianificazione patrimoniale seria non ragiona solo su “cosa succede quando va tutto bene”. Ragiona su “cosa succede quando serve davvero”.
Allora le unit linked sono da evitare? No. Ma vanno “disinnescate” dalla retorica
Le unit linked non sono un male assoluto. Esistono contratti ben costruiti e casi in cui possono avere senso, soprattutto quando:
- c’è una reale esigenza di designazione beneficiari e di architettura successoria integrata;
- il contratto è trasparente, con costi leggibili e competitivi;
- i sottostanti sono efficienti e coerenti con il profilo di rischio;
- l’orizzonte temporale è adeguato;
- il cliente capisce davvero che sta assumendo rischio di mercato, non comprando un “salvagente”.
Il punto è smettere di valutarle come “un trucco fiscale” e iniziare a valutarle come ciò che spesso sono: un portafoglio finanziario dentro un wrapper assicurativo. E un wrapper, da solo, non crea valore: può al massimo ridisegnare alcuni aspetti (beneficiari, modalità di trasferimento, vincoli).
Una checklist concreta: le domande che contano prima di firmare
Quando una proposta di unit linked arriva sul tavolo, le domande davvero utili sono poche ma decisive:
- Qual è la funzione primaria? Protezione familiare, pianificazione successoria, investimento, o marketing?
- Quanto costa tutto, ogni anno, in modo aggregato? (contratto + fondi + eventuali costi accessori).
- Quali sono i sottostanti? Sono efficienti, diversificati, coerenti con il profilo, oppure costosi e ridondanti?
- Come e quando posso rientrare in possesso del capitale? Tempi, penali, finestre, impatti fiscali.
- La componente assicurativa è reale o simbolica? Se è simbolica, anche l’aspettativa di “scudo” va ridimensionata.
- Qual è l’alternativa finanziaria “pura” equivalente e quanto mi costerebbe? Il confronto è la cura contro le illusioni.
Cosa resta davvero della promessa fiscale?
Resta, ma non come slogan. Resta come architettura, a condizione che:
- la polizza sia parte di un disegno patrimoniale complessivo,
- i costi siano sostenibili e giustificati,
- la struttura non sia un investimento caro mascherato,
- l’investitore sia consapevole che il mercato può fare il mercato, anche dentro una polizza.
La promessa fiscale, da sola, non può più essere il pilastro. Oggi il pilastro è un altro: la coerenza tra funzione, costi, rischi e obiettivo familiare.
Conclusione: meno mito, più progetto
Le polizze vita non sono tutte uguali. E le unit linked, in particolare, non possono più essere vendute – né acquistate – come una scorciatoia.
Dopo la maggiore attenzione della giurisprudenza e con un mercato meno indulgente, la verità è diventata più semplice e, paradossalmente, più utile:
se stai comprando finanza, devi valutarla come finanza. Se stai comprando assicurazione, devi pretendere assicurazione vera.
Il risparmiatore che oggi vuole proteggere la famiglia e trasferire capitale agli eredi ha bisogno di qualcosa di più di una promessa: ha bisogno di un progetto. E un progetto, in finanza come nella vita, funziona quando è costruito sulla sostanza, non sulle etichette.