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Tag: Mercati finanziari

Cirio, il gusto amaro di un crack: quando un marchio leggendario diventò un caso finanziario

C’è stato un tempo in cui “Cirio” significava Italia. Pomodori, conserve, sapori familiari. Un marchio nato a Torino nel 1856 grazie all’intuizione di Francesco Cirio, pioniere della conservazione alimentare e dell’esportazione del made in Italy nel mondo. Un simbolo di affidabilità e tradizione.

Poi, molto più tardi, Cirio divenne tutt’altro: un nome legato a uno dei più dolorosi fallimenti finanziari della storia recente, un crac che ha bruciato i risparmi di decine di migliaia di piccoli investitori.

Dall’agroalimentare al “gruppo Cragnotti”

La parabola si compie negli anni Novanta, quando Sergio Cragnotti, manager carismatico e ambizioso, trasforma il marchio in un conglomerato finanziario e industriale. È l’epoca dell’Italia rampante, dei grandi sogni di espansione, del credito facile.

Cragnotti compra e ricompra: dalle conserve Cirio-Bertolli-De Rica a Del Monte, fino alla Centrale del Latte di Roma. Persino la S.S. Lazio, di cui diventa proprietario e simbolo. L’idea è quella di costruire un gruppo alimentare integrato e internazionale, ma la crescita è finanziata a leva, cioè con un uso massiccio del debito.

Per sostenere questa macchina complessa, Cirio ricorre a emissioni obbligazionarie collocate anche al pubblico retail, tramite il circuito bancario. Migliaia di risparmiatori italiani acquistano quei titoli, spesso convinti che “Cirio” fosse sinonimo di solidità, come un Buono del Tesoro con un’etichetta più familiare.

In realtà, dietro l’immagine rassicurante si celava un sistema fragile, fondato su una catena di garanzie infragruppo e veicoli finanziari esteri. Bastava un ingranaggio fuori posto per far saltare tutto.

L’innesco del disastro

Quel momento arriva l’8 novembre 2002, quando Cirio Finance Luxembourg non riesce a rimborsare un prestito obbligazionario da 150 milioni di euro. È il classico “default tecnico”, ma le clausole contrattuali fanno scattare un effetto domino: il cross-default che coinvolge le altre sei emissioni del gruppo, per un valore complessivo di oltre 1,1 miliardi di euro.

In poche ore, il sogno Cirio si trasforma in un incubo finanziario. Le obbligazioni diventano carta straccia. Le banche smettono di rifinanziare il gruppo. Gli investitori si scoprono esposti a un rischio che nessuno aveva realmente percepito.

Nel frattempo emergono tensioni di liquidità, squilibri patrimoniali e sospetti di false rappresentazioni contabili. La struttura finanziaria — intricata, opaca, indebitata — non regge più.

Il 7 agosto 2003, il Tribunale di Roma dichiara lo stato di insolvenza di varie società del gruppo (tra cui Cirio Holding, Cirio Finanziaria e Cirio Del Monte Italia) e apre la procedura di amministrazione straordinaria, la cosiddetta “Prodi-bis”, riservata alle grandi imprese in crisi.

La lunga coda giudiziaria e i pochi spiccioli ai risparmiatori

Nei mesi successivi partono le indagini penali su manager e intermediari. Cragnotti si difende, ma la giustizia segue il suo corso: nel tempo vengono accertate responsabilità per bancarotta fraudolenta, fino alla condanna definitiva a 5 anni e 3 mesi, pronunciata il 12 marzo 2021, dopo un lungo iter processuale.

Intanto, le procedure concorsuali avanzano lentamente. Solo nel 2010 arriva il primo riparto parziale ai creditori di Cirio Del Monte Italia: i privilegiati vengono soddisfatti integralmente, ma gli obbligazionisti chirografari — cioè i piccoli risparmiatori — ricevono appena il 6,2% del valore nominale dei titoli.

In totale, oltre 30–35 mila famiglie italiane si ritrovano con in mano obbligazioni divenute quasi senza valore.

Perché Cirio è fallita davvero

Guardando oggi la vicenda con occhi freddi, le cause appaiono chiare:

  • un eccesso di leva finanziaria che ha moltiplicato il rischio operativo;
  • una struttura societaria complessa e interconnessa, che ha diffuso il contagio tra le controllate;
  • la distribuzione al pubblico retail di titoli non adeguati al profilo dei sottoscrittori;
  • una governance opaca, segnata da operazioni infragruppo e rappresentazioni contabili discutibili;
  • infine, l’assenza di un sistema di tutele efficace per i piccoli investitori, in un’epoca precedente all’entrata in vigore della normativa MiFID.

In altre parole, Cirio non è fallita solo per un buco di cassa, ma per una cultura del rischio distorta, dove la finanza ha divorato l’impresa industriale.

Le conseguenze: tra dolore e consapevolezza

Il crack Cirio non ha solo distrutto un gruppo industriale, ma ha lasciato un segno profondo nel rapporto tra italiani e risparmio. Molti risparmiatori, abituati a fidarsi delle banche e dei grandi marchi, scoprirono per la prima volta che un’obbligazione non è un salvadanaio garantito, ma un credito verso un’impresa che può fallire.

Quel trauma collettivo contribuì a un cambio di paradigma nella vigilanza finanziaria. Le autorità rafforzarono le regole di trasparenza e “product governance”: da lì a poco, con l’arrivo della MiFID, sarebbe diventato obbligatorio verificare l’adeguatezza dei prodotti rispetto al profilo dell’investitore.

Anche il legislatore intervenne, perfezionando le procedure di amministrazione straordinaria per le grandi imprese e migliorando la tutela dei creditori, sebbene i risultati per i risparmiatori Cirio restarono limitati.

E il marchio? Paradossalmente, “Cirio” è sopravvissuto. Oggi fa parte del consorzio Conserve Italia, che ne detiene i diritti e ne ha rilanciato la produzione. L’azienda è viva, ma la “Cirio di Cragnotti” — la holding finanziaria che ne portava il nome — è un ricordo amaro, una lezione di storia economica.

Una lezione che vale ancora oggi

Il caso Cirio resta un monito sempre attuale.

Ricorda che la fiducia non può sostituire la conoscenza, che la cedola alta nasconde spesso un rischio alto, e che anche il marchio più amato non garantisce solidità finanziaria.

Soprattutto, ricorda a tutti noi — consulenti, risparmiatori e istituzioni — che il risparmio va protetto non con la promessa del rendimento, ma con la trasparenza, la comprensione e il rispetto per chi affida il proprio denaro.

Il ritorno del “carry trade” sullo yen: un equilibrio fragile nei mercati globali

Negli ultimi mesi si è tornato a parlare con insistenza del carry trade sullo yen giapponese, una strategia che, pur essendo tecnicamente complessa, svolge un ruolo cruciale nei flussi di liquidità globali. Il suo andamento, oggi più che mai, rappresenta un indicatore della stabilità (o fragilità) dei mercati finanziari internazionali.

Cos’è il carry trade

Il carry trade consiste nel prendere a prestito denaro in una valuta con tassi d’interesse molto bassi per investirlo in asset denominati in valute con rendimenti più elevati.

Il profitto deriva dal differenziale di tasso (interest rate differential), cioè dalla differenza tra ciò che si paga per finanziarsi e ciò che si ottiene investendo.

Finché i cambi restano stabili e il differenziale resta ampio, la strategia può risultare molto redditizia. Ma il suo equilibrio è estremamente sensibile: basta una variazione nei tassi o un movimento improvviso del cambio per ribaltare completamente i risultati.

Perché lo yen è la valuta di riferimento

Lo yen giapponese è tradizionalmente considerato la valuta di finanziamento per eccellenza nel mondo del carry trade.

Per oltre due decenni, la Bank of Japan (BoJ) ha mantenuto una politica monetaria ultra-accomodante per contrastare la deflazione e sostenere la crescita, lasciando i tassi d’interesse vicini o addirittura inferiori allo zero.

In questo contesto, prendere a prestito in yen è stato estremamente conveniente: gli investitori internazionali hanno potuto trasformare il basso costo del denaro giapponese in una leva per finanziare posizioni su titoli di Stato, obbligazioni corporate, azioni o valute più redditizie.

Un cambio di rotta (cauto) da parte della BoJ

Dopo anni di immobilismo, la Bank of Japan ha avviato — con grande cautela — una fase di normalizzazione monetaria.

Dalla primavera del 2024 i tassi d’interesse sono tornati lievemente positivi (intorno allo 0,25–0,5%) e l’istituto guidato da Kazuo Ueda ha segnalato una maggiore attenzione ai rischi inflazionistici.

Questo cambiamento, pur marginale in termini assoluti, è sufficiente a modificare la percezione del rischio associato al carry trade in yen.

Lo yen, dopo essersi indebolito fino a toccare quota 160 contro il dollaro, ha mostrato segnali di recupero, alimentati anche dalle aspettative di ulteriori rialzi e da possibili interventi verbali della BoJ sul mercato valutario.

I rischi del meccanismo

Il carry trade sullo yen è redditizio solo finché la valuta giapponese rimane debole.

Un suo apprezzamento improvviso — magari innescato da un cambiamento nella politica monetaria o da tensioni geopolitiche — può costringere gli investitori a chiudere le posizioni e a ricomprare yen per rimborsare i prestiti, generando vendite a catena su altri asset.

Questo fenomeno, noto come unwinding del carry trade, è stato osservato in diverse fasi di tensione dei mercati globali, come durante la crisi finanziaria del 2008 o nella fase iniziale della pandemia nel 2020.

Secondo alcuni analisti, un movimento simile — anche se di entità minore — potrebbe ripresentarsi qualora lo yen continuasse ad apprezzarsi.

Ripercussioni sui mercati internazionali

Il carry trade in yen rappresenta una delle principali fonti di liquidità “ombra” che alimentano i mercati finanziari.

Quando la strategia è in pieno vigore, gli investitori tendono a spingersi verso asset più rischiosi, sostenendo le quotazioni di azioni, obbligazioni ad alto rendimento e valute emergenti.

Al contrario, una fase di chiusura del carry trade può generare un deflusso di capitali e un aumento repentino della volatilità, soprattutto nei segmenti di mercato più esposti ai flussi speculativi internazionali.

Molti osservatori ritengono che questa dinamica possa amplificare movimenti già in corso, più che crearne di nuovi: il carry trade non è la causa dei cicli di mercato, ma spesso ne esaspera gli effetti.

Uno scenario in evoluzione

Al momento, la BoJ procede con estrema gradualità, cercando di non destabilizzare i mercati valutari e obbligazionari. Tuttavia, il margine di manovra resta limitato: da un lato, l’inflazione giapponese è più persistente del previsto; dall’altro, un rialzo eccessivo dei tassi rischierebbe di indebolire la fragile ripresa economica interna.

La conseguenza è che il carry trade sullo yen resta un equilibrio precario, influenzato tanto dalle decisioni di Tokyo quanto da quelle di Washington.

Finché il differenziale tra i tassi statunitensi e giapponesi rimarrà ampio, la strategia potrebbe continuare ad attrarre capitali. Ma il rischio di un’inversione improvvisa resta dietro l’angolo.

In sintesi

  • Motivo: sfruttare il differenziale di tassi tra lo yen (basso) e altre valute (più alte).
  • Contesto: la BoJ ha iniziato una cauta normalizzazione monetaria.
  • Rischio principale: un apprezzamento improvviso dello yen può innescare chiusure forzate di posizioni.
  • Possibili effetti: aumento della volatilità e deflussi di liquidità dai mercati globali.
  • Scenario attuale: fase di equilibrio instabile, con attenzione ai prossimi passi di BoJ e Fed.

L’AI e il rischio sistemico: il triangolo Oracle–Nvidia–OpenAI e la fragilità nascosta della nuova corsa all’intelligenza artificiale

Dietro l’entusiasmo per i mega-investimenti nell’intelligenza artificiale si nasconde una rete di interdipendenze finanziarie e tecnologiche che potrebbe trasformare il settore in un epicentro di rischio sistemico globale.

Nel 2025 l’intelligenza artificiale è diventata il nuovo “petrolio digitale” e i colossi che la alimentano — Nvidia, Oracle, OpenAI e pochi altri — sono ormai i custodi dell’infrastruttura che sostiene l’intera economia digitale.

Ma dietro le promesse di crescita illimitata si cela una rete di relazioni finanziarie e industriali così dense e circolari da somigliare più a un sistema bancario ombra che a una filiera tecnologica.

Il triangolo d’oro (e d’azzardo) dell’AI

Nel settembre 2025 Nvidia ha annunciato un accordo “fino a 100 miliardi di dollari” con OpenAI per costruire e alimentare 10 gigawatt di potenza computazionale, basata su GPU di nuova generazione.

Un mese dopo, Oracle ha rilanciato con un piano da circa 300 miliardi di dollari in cinque anni per ospitare l’infrastruttura cloud di OpenAI nei propri data center, integrando la piattaforma Azure di Microsoft in un’inedita architettura multicloud.

In parallelo, Nvidia fornirà a Oracle centinaia di migliaia di chip GB200 per alimentare i futuri supercomputer “Stargate”, mentre OpenAI diversifica siglando un nuovo accordo con AMD (6 GW di capacità e warrant fino al 10% del capitale).

Sulla carta, un ecosistema sinergico. Nella pratica, una catena di dipendenze incrociate: Nvidia finanzia OpenAI, che compra GPU da Nvidia, che vende infrastrutture a Oracle, che a sua volta fornisce capacità cloud a OpenAI.

Un “triangolo d’oro” apparentemente perfetto, ma che poggia su equilibri finanziari e operativi delicatissimi.

Dal vantaggio competitivo al rischio di contagio

Questo intreccio industriale è una miniera di efficienza, ma anche una bomba di complessità.

Se una sola delle tre aziende dovesse incontrare un ostacolo — tecnico, regolatorio o finanziario — l’impatto si propagherebbe lungo l’intera catena.

  • Rischio hardware: la produzione dei chip Nvidia dipende da nodi litografici avanzati di TSMC e da materiali critici (rame, silicio, terre rare). Un ritardo produttivo o una sanzione geopolitica può bloccare intere linee di calcolo AI.
  • Rischio infrastrutturale: Oracle, fornendo la base cloud su cui gira OpenAI, concentra nelle proprie mani la resilienza di servizi ormai strategici per governi e imprese. Un blackout, una vulnerabilità o una congestione di rete diventerebbero incidenti sistemici.
  • Rischio finanziario: gli impegni da centinaia di miliardi sono strutturati in più livelli di leva e previsioni di ritorno future. Se la domanda reale dell’AI — in termini di applicazioni, abbonamenti o servizi enterprise — non cresce come previsto, la pressione sui bilanci si farà pesante.
  • Rischio regolatorio e reputazionale: OpenAI è la faccia pubblica dell’intelligenza artificiale, e qualsiasi scandalo legato a bias, sicurezza o uso improprio dei dati può ricadere anche su Oracle e Nvidia, che ne sono fornitori e partner strategici.

È un ecosistema chiuso, dove il fallimento di un attore può generare effetti a catena simili a quelli di un default finanziario: rallentano le forniture, slittano i contratti, si svalutano asset e azioni, scattano margin call, i capitali si ritirano.

La bolla delle aspettative

L’attuale rally del settore AI, trainato dai titoli Nvidia, Microsoft, Oracle e AMD, ricorda per certi versi la bolla dot-com del 2000.

I multipli di valutazione restano su livelli insostenibili rispetto ai fondamentali: Nvidia capitalizza oltre 3.000 miliardi di dollari, e una parte significativa del suo valore attuale è scontata su ricavi futuri ancora ipotetici.

Nel frattempo, i costi energetici e infrastrutturali stanno esplodendo: ogni gigawatt di capacità AI richiede investimenti nell’ordine di 8–10 miliardi di dollari, e il fabbisogno elettrico dei nuovi data center potrebbe superare quello di intere nazioni europee.

L’AI, insomma, è tanto una rivoluzione tecnologica quanto una scommessa macroeconomica sull’energia, il debito e la fiducia degli investitori.

Il rischio sistemico tecnologico: una nuova Lehman digitale

Quello che emerge è un rischio sistemico tecnologico: un nuovo tipo di vulnerabilità che unisce supply chain, finanza e dati in un unico circuito chiuso.

L’interconnessione tra fornitori di chip, piattaforme cloud e sviluppatori di modelli genera un effetto domino potenziale che i mercati, finora, hanno ignorato.

Come nel 2008 la leva finanziaria nascosta nei derivati subprime era “invisibile” finché non è collassata, oggi la leva dell’AI è tecnologica e contrattuale: contratti decennali, obbligazioni su capacità future, anticipi d’investimento che dipendono dalla crescita esponenziale dei modelli.

Se quella crescita dovesse rallentare — per limiti fisici, normativi o semplicemente di domanda — il castello di previsioni potrebbe sgonfiarsi in pochi trimestri, generando un “AI crash” di proporzioni imprevedibili.

Come leggere il segnale debole

Gli investitori più accorti guardano già agli early warning:

  • il rallentamento nella domanda di GPU di fascia alta da parte dei cloud provider minori;
  • le prime indagini antitrust sulla concentrazione del mercato AI;
  • il dibattito su una “AI Tax” per coprire il consumo energetico dei data center;
  • e, soprattutto, la difficoltà crescente di trasformare l’hype in profitti sostenibili.

Oracle, Nvidia e OpenAI stanno costruendo l’infrastruttura del futuro, ma lo stanno facendo in un contesto di forte dipendenza reciproca e di capitali a leva, dove ogni promessa non mantenuta può tradursi in una frattura di fiducia.

Conclusione: la nuova interdipendenza del potere tecnologico

L’intelligenza artificiale non è solo una frontiera dell’innovazione: è anche una nuova architettura del potere economico.

Nel suo nucleo, poche aziende controllano il flusso dei dati, dell’energia e del capitale cognitivo.

È un sistema straordinariamente efficiente — e proprio per questo, fragile.

Quando tre giganti come Oracle, Nvidia e OpenAI si intrecciano a questo livello, il rischio non è più solo industriale: diventa macro-finanziario.

La storia insegna che ogni grande rivoluzione — dalle ferrovie all’elettricità, da Internet ai derivati — ha conosciuto il suo “momento di euforia” prima di trovare un equilibrio.

L’AI non farà eccezione.

Capire lo short squeeze tra teoria e realtà

Nel lessico della finanza, lo “short squeeze” rappresenta uno di quegli eventi tanto tecnici quanto spettacolari che possono sconvolgere l’equilibrio dei mercati nel giro di poche sedute. Non si tratta semplicemente di un movimento di prezzo anomalo, ma del risultato di una dinamica complessa e auto-rinforzante, innescata da un eccesso di scommesse ribassiste che, improvvisamente, si trasformano in benzina per un rally. Comprendere a fondo questo fenomeno è utile per analisti, investitori e osservatori del mercato, perché rivela in modo cristallino come funzionano le forze della domanda, dell’offerta e della leva finanziaria in contesti di stress.

Cos’è lo short selling e perché è rischioso 

La vendita allo scoperto (“short selling”) è una strategia finanziaria mediante la quale un investitore prende in prestito un titolo (tipicamente da un broker) e lo vende immediatamente sul mercato, con l’intento di ricomprarlo in seguito a un prezzo inferiore. Il guadagno potenziale deriva dalla differenza tra il prezzo di vendita iniziale e quello di riacquisto.

Questa operatività si basa sulla convinzione che il titolo sia sopravvalutato, oppure che sia destinato a scendere per motivi fondamentali o tecnici. Tuttavia, a differenza di una posizione long (acquisto tradizionale), lo short espone a perdite potenzialmente illimitate: se il prezzo del titolo sale invece di scendere, l’investitore dovrà ricomprarlo a un prezzo più alto, subendo una perdita crescente man mano che il rally continua.

Il meccanismo dello short squeeze: dinamica di una trappola

Lo short squeeze si verifica quando il prezzo di un’azione, di una commodity o di un altro asset inizia a salire in modo significativo e improvviso, costringendo chi ha posizioni short ad acquistare sul mercato per chiudere (“coprire”) le proprie esposizioni e limitare le perdite. Questo flusso di acquisti aggiuntivi alimenta ulteriormente la domanda, facendo salire ancor di più il prezzo, il che può portare altri short sellers a capitolare in una reazione a catena.

Più è alta la concentrazione di short interest (la percentuale di azioni vendute allo scoperto rispetto al flottante), più la pressione potenziale può diventare violenta. Se, a questa condizione, si aggiunge una scarsa disponibilità di titoli da acquistare sul mercato (liquidità ridotta) e un evento catalizzatore (una notizia positiva, un cambiamento normativo, una campagna di acquisto coordinata), il terreno per uno squeeze è pronto.

Short squeeze e leva finanziaria: un mix esplosivo 

Gli investitori short spesso utilizzano leva finanziaria per aumentare il potenziale rendimento delle operazioni. Tuttavia, la leva amplifica anche le perdite. Se il prezzo del titolo si muove contro la posizione short, il margine richiesto aumenta, e il broker può emettere una margin call, costringendo l’investitore a chiudere forzatamente la posizione. Questo meccanismo accelera il processo di copertura e amplifica lo squeeze.

Impatto di mercato: volatilita, euforia e rischio sistemico 

Uno short squeeze non è solo una questione di singolo titolo. Quando coinvolge asset molto seguiti o operatori di grandi dimensioni, può avere effetti a catena:

  • Aumento della volatilità: movimenti improvvisi e poco spiegabili con i fondamentali disorientano investitori e algoritmi.
  • Distorsione dei prezzi: il valore di mercato può divergere fortemente da quello intrinseco.
  • Fallimenti o stress per gli hedge fund: se le perdite superano una certa soglia, alcuni operatori possono essere costretti a liquidare altre posizioni, amplificando la pressione su altri asset.
  • Interventi regolamentari: le autorità di vigilanza possono intervenire per analizzare o limitare le dinamiche speculative, come avvenuto nel caso GameStop.

Esempi celebri nella storia dei mercati

  1. Volkswagen (ottobre 2008): In un contesto già instabile, Porsche annunciò di aver acquisito opzioni su una quota significativa di azioni VW, portando il mercato a scoprire che solo una minima parte del flottante era effettivamente disponibile. Il titolo salì fino a superare brevemente i €1.000 per azione, facendo diventare VW l’azienda più capitalizzata al mondo per un giorno.
  2. GameStop (gennaio 2021): Lanciata da investitori retail organizzati su Reddit, questa operazione vide un titolo in declino diventare simbolo di resistenza contro gli hedge fund. Il prezzo passò da circa $20 a oltre $400 in pochi giorni. Gli short sellers subirono perdite miliardarie, mentre si aprì un dibattito globale su democrazia finanziaria, trasparenza e ruolo delle piattaforme di trading.
  3. Argento (ottobre 2025): Recentemente, alcuni analisti osservano segnali coerenti con uno short squeeze sul mercato dell’argento fisico, soprattutto a Londra. La domanda fisica ha superato le disponibilità, i contratti spot sono entrati in backwardation (prezzi immediati più alti dei futures), e alcuni operatori segnalano difficoltà nel coprire le posizioni. Se confermato, questo fenomeno potrebbe rappresentare il primo squeeze su larga scala in un metallo prezioso dal 2011.

Comprendere lo short squeeze per leggere il mercato

Lo short squeeze è molto più di una curiosità tecnica: è la manifestazione estrema di tensioni tra aspettative ribassiste e forze rialziste, tra leva finanziaria e liquidità di mercato. In un mondo dove le informazioni circolano a velocità istantanea e le strategie di trading sono sempre più complesse, questi fenomeni sono destinati a ripetersi, spesso in forme nuove e più sofisticate.

Per l’investitore attento, riconoscere i segnali premonitori di uno short squeeze può significare evitare perdite potenzialmente disastrose o, al contrario, cogliere un’opportunità speculativa. Ma soprattutto, è un’occasione per ricordare che la finanza non è solo razionalità e numeri, ma anche dinamiche psicologiche e strutturali che possono sfuggire a ogni previsione.

La certificazione CFP® e il valore della consulenza finanziaria qualificata

La certificazione CFP® e il valore della consulenza finanziaria qualificata

Quando si parla di risparmi, investimenti e progetti di vita, la scelta del professionista a cui affidarsi è decisiva. Molti si presentano come “consulenti finanziari”, ma non tutti hanno la stessa preparazione né rispondono a standard rigorosi di competenza ed etica. In questo scenario, una credenziale spicca come segno distintivo di qualità e indipendenza: la CFP® – Certified Financial Planner, riconosciuta in oltre venticinque Paesi come la qualifica di riferimento per chi si occupa di pianificazione finanziaria personale. In Italia i professionisti che hanno ottenuto questa certificazione sono soltanto 131, un numero che sottolinea quanto il percorso sia selettivo e quanto il titolo rappresenti un elemento di reale differenziazione.

Un marchio internazionale che garantisce qualità

La certificazione CFP® non è un semplice attestato, ma un marchio registrato e tutelato dal Financial Planning Standards Board (FPSB), organizzazione internazionale con sede a Denver e rappresentanze in tutto il mondo, tra cui FPSB Italia, unico ente autorizzato a rilasciarla nel nostro Paese. Per ottenerla non basta superare un esame accademico: occorre dimostrare, attraverso una prova pratica su casi reali, di saper affrontare in modo integrato tutti gli aspetti della vita finanziaria, dagli investimenti alla previdenza, dalla protezione assicurativa alla fiscalità e al passaggio generazionale. Il candidato deve seguire un percorso formativo accreditato da FPSB Italia – offerto da università, ordini professionali o scuole specializzate – e maturare un bagaglio di esperienza concreta, pari ad almeno tre anni di attività nel settore (o un anno sotto supervisione). L’impegno non termina con la certificazione: chi ottiene il titolo è tenuto a un aggiornamento permanente, che prevede formazione annuale e un focus obbligatorio su temi etici, così da garantire una consulenza sempre attuale e allineata ai continui cambiamenti dei mercati e della normativa.

Questa preparazione si traduce in un approccio profondamente diverso rispetto a quello di chi si limita a collocare prodotti finanziari. Un consulente CFP® parte dall’analisi del patrimonio complessivo, degli obiettivi di vita, del flusso di redditi e delle eventuali vulnerabilità del cliente, per costruire una strategia personalizzata che unisca investimenti, previdenza, protezione dai rischi e pianificazione successoria. Il risultato non è una semplice lista di fondi o polizze, ma un piano finanziario integrato e aggiornabile, capace di evolvere con la vita della persona: un documento vivo che accompagna l’intero percorso, dalla definizione degli obiettivi fino al monitoraggio costante e all’adattamento alle nuove esigenze.

A rendere ancora più solida questa garanzia interviene il codice etico internazionale che ogni professionista certificato è tenuto a rispettare. Chi porta il titolo CFP® deve dichiarare eventuali conflitti d’interesse, essere trasparente sui costi e mantenere come priorità assoluta gli obiettivi del cliente. Non si tratta di una mera formalità: eventuali violazioni comportano sanzioni severe, fino alla revoca della certificazione. Per il cliente questo si traduce in una tutela concreta, che va ben oltre la semplice immagine professionale.

La pianificazione finanziaria: il cuore del servizio

La pianificazione finanziaria, d’altronde, è molto più di un esercizio tecnico: è il mezzo per trasformare desideri e progetti in strategie concrete. Il processo definito da FPSB si articola in sei passaggi, dalla definizione del rapporto tra consulente e cliente alla raccolta dei dati e degli obiettivi, dall’analisi e valutazione della situazione alla presentazione delle raccomandazioni, fino all’attuazione del piano e al suo monitoraggio nel tempo. Che si tratti di acquistare una casa, finanziare l’istruzione dei figli, pianificare la pensione o organizzare un passaggio generazionale, il consulente CFP® guida ogni fase con metodo e visione d’insieme, aiutando a dare struttura e continuità alle scelte economiche.

I benefici documentati: più sicurezza, più serenità

La validità di questo approccio è confermata da una ricerca globale condotta da FPSB in collaborazione con la società MYMAVINS, che ha coinvolto oltre 15.000 consumatori in 15 Paesi. I risultati sono eloquenti: il 38% dei clienti riporta un miglioramento del benessere finanziario e della tranquillità mentale, il 37% una maggiore fiducia nelle proprie decisioni economiche, il 36% una migliore comprensione delle questioni finanziarie. Più della metà degli intervistati (51%) afferma che la pianificazione finanziaria ha avuto un effetto positivo sulla salute mentale e sulla vita familiare. E i benefici non riguardano solo i più abbienti: tra i clienti con redditi inferiori a 60.000 dollari annui, il 46% segnala un impatto positivo sulla salute mentale e il 44% un miglioramento della vita familiare. Il dato forse più significativo riguarda la fiducia: il 95% dei clienti si fida del proprio financial planner, una percentuale che sale al 98% tra chi lavora con un professionista CFP®, e chi si affida a un CFP® dichiara una qualità della vita, una sicurezza finanziaria e una soddisfazione nettamente superiori rispetto a chi si rivolge ad altri consulenti o non riceve alcuna consulenza. Non a caso il 72% delle persone che non hanno mai usufruito di un servizio di pianificazione finanziaria intende farlo, e oltre la metà prevede di compiere questo passo entro tre anni.

Una scelta di fiducia e lungimiranza

In un contesto di mercati complessi, cambi normativi frequenti e abbondanza di offerte, affidarsi a un Certified Financial Planner significa scegliere un professionista che unisce competenza tecnica, aggiornamento costante e responsabilità etica. Per chi desidera gestire il proprio patrimonio con consapevolezza, pianificare la pensione o preparare un passaggio generazionale senza sorprese, la sigla CFP® rappresenta un marchio di qualità e indipendenza su cui costruire il proprio futuro finanziario: una scelta di fiducia e lungimiranza che fa la differenza tra un semplice investimento e un vero progetto di vita.

Tango Bond: la grande lezione del default argentino

Tango Bond: la grande lezione del default argentino

A fine 2001, mentre in Europa si brindava all’arrivo dell’euro, dall’altra parte dell’Atlantico l’Argentina precipitava in una crisi che avrebbe segnato la storia finanziaria moderna. Il 23 dicembre il governo di Buenos Aires annunciò che non avrebbe rimborsato circa 95 miliardi di dollari di debito: il più grande default sovrano dell’epoca.

Per migliaia di famiglie italiane, che avevano acquistato i cosiddetti Tango Bond, fu un risveglio traumatico: in poche settimane titoli che sembravano sicuri persero gran parte del loro valore.

Un cambio fisso che divenne una trappola

Negli anni Novanta l’Argentina aveva scelto una strada affascinante ma rischiosa: ancorare il peso al dollaro con un tasso di cambio fisso di uno a uno. All’inizio fu un successo. L’inflazione, che nel 1989 superava il 3.000%, crollò sotto il 5%.

Ma la rigidità di quel meccanismo, unita a spesa pubblica generosa e riforme incompiute, si trasformò in un cappio. Tra il 1998 e il 2001 l’economia entrò in recessione: –3,4% nel 1999, –0,8% nel 2000, –4,4% nel 2001. Il Brasile, principale partner commerciale, svalutò la sua moneta, rendendo le esportazioni argentine circa 30% più care. Nel frattempo il debito pubblico saliva dal 29% del PIL nel 1991 a circa 62% nel 2001, e oltre il 70% era denominato in dollari: una bomba a orologeria.

Le riserve in valuta, che nel 1999 erano di 27 miliardi di dollari, scesero a circa 10 miliardi. I tassi d’interesse esplosero fino al 40% e i capitali fuggirono. A dicembre 2001 il governo impose il corralito, bloccando i conti bancari: un gesto che sancì la fine del sogno della convertibilità.

La seduzione dei Tango Bond

In quegli stessi anni l’Argentina aveva finanziato il proprio debito collocando obbligazioni sui mercati internazionali.

Le cedole, tra il 7% e l’11%, erano un richiamo irresistibile per risparmiatori europei abituati a rendimenti più modesti. Molte banche italiane ed europee proposero i bond con entusiasmo, spesso senza spiegare appieno i rischi legati a un Paese emergente in difficoltà.

Indagini successive hanno rivelato che diversi istituti, oltre a collocare i titoli, ne approfittarono per alleggerire i propri portafogli, trasferendo il rischio sui clienti. Le commissioni di collocamento potevano arrivare all’1,5% del valore nominale: un incentivo non trascurabile.

Eppure i segnali d’allarme c’erano. Nell’estate 2001 le agenzie di rating avevano già abbassato il giudizio dell’Argentina a “B”, categoria speculativa. Ma la promessa di rendimenti elevati offuscò l’attenzione di molti.

Dalle cedole al tracollo

Nei mesi che precedettero il default i principali titoli argentini scambiavano intorno a 70–80 centesimi per ogni dollaro di valore nominale, con differenze tra scadenze e valute.

Dopo l’annuncio di insolvenza, tra fine 2001 e i primi mesi del 2002, i prezzi crollarono rapidamente sotto i 30 centesimi, e in alcuni casi – per le emissioni più lunghe e meno liquide – toccarono anche i 15–20 centesimi.

Per gli investitori italiani, che detenevano complessivamente circa 12 miliardi di dollari in questi titoli, le perdite furono enormi.

Solo dopo lunghe trattative, le ristrutturazioni del 2005 e del 2010 offrirono nuovi titoli con un recupero medio del 30–35% del valore originario: ben poco per chi aveva creduto di avere in mano un investimento “tranquillo”.

Il mito del titolo di Stato “sicuro al 100%”

Forse la lezione più importante che l’Argentina lasciò ai risparmiatori fu proprio questa: un titolo di Stato non è per definizione privo di rischio.

L’idea, diffusa soprattutto tra il pubblico retail, che le obbligazioni governative siano sempre “sicure” è stata smentita in modo clamoroso. Il rischio sovrano esiste e può materializzarsi anche in Paesi con un’economia di medie dimensioni, se il debito è insostenibile, se le riserve si esauriscono o se la politica diventa instabile.

L’esperienza argentina dimostrò che l’affidabilità di un’emissione non dipende dalla natura “pubblica” del debitore, ma dalla solidità delle finanze e dalla credibilità delle istituzioni che lo sostengono.

Lezioni che parlano al presente

Quella vicenda, a più di vent’anni di distanza, resta una bussola per ogni risparmiatore.

La prima lezione è che il rendimento “facile” nasconde sempre un rischio proporzionato: nessuna cedola sopra la media è gratuita.

La seconda è che la diversificazione geografica e valutaria non è un consiglio accademico, ma una regola di sopravvivenza: concentrare i risparmi su un singolo Paese o su una sola valuta può essere fatale.

Infine, l’episodio ha mostrato quanto sia importante la consulenza indipendente. All’epoca la normativa europea non imponeva i controlli di adeguatezza oggi previsti dalla MiFID, e molti risparmiatori furono lasciati soli a decifrare rischi che neppure le agenzie di rating avevano valutato con prontezza.

Il default argentino non fu un fulmine a ciel sereno: i numeri – debito crescente, riserve in caduta, declassamenti – parlavano chiaro già mesi prima. Ignorarli costò caro a chi, attratto dalle sirene dei Tango Bond, scambiò per sicurezza ciò che era solo un fragile equilibrio. Una lezione che, in un mondo di mercati globali e rendimenti sempre più compressi, resta più attuale che mai.

Fear & Greed Index: leggere il sentiment di mercato per decisioni di investimento più consapevoli

Fear & Greed Index: leggere il sentiment di mercato per decisioni di investimento più consapevoli

Il Fear & Greed Index è un indicatore composito sviluppato da CNN Business che sintetizza in un singolo valore l’orientamento emotivo degli investitori, misurando quanto la paura o l’avidità dominino il mercato azionario statunitense. L’indice varia da 0 a 100: punteggi bassi segnalano condizioni di “paura estrema”, mentre valori elevati indicano “avidità estrema”. Al momento della scrittura di questo articolo, la lettura è intorno a quota 61, un livello che descrive un sentiment di Greed (Avidità), con una discreta propensione al rischio.

La costruzione del Fear & Greed Index è basata su sette sotto-indicatori, ognuno dei quali rappresenta un aspetto diverso della propensione al rischio e della struttura di mercato:

  • Momentum: misura la distanza tra l’S&P 500 e la sua media mobile a 125 giorni. Un indice sopra la media suggerisce ottimismo e potenziale eccesso di acquisti.
  • Forza dei titoli: calcola la percentuale di azioni dell’S&P 500 che segnano nuovi massimi o minimi a 52 settimane, evidenziando la partecipazione diffusa o meno ai movimenti rialzisti.
  • Ampiezza di mercato (Breadth): analizza il volume delle azioni in rialzo rispetto a quelle in ribasso. Una breadth ampia indica fiducia diffusa.
  • Opzioni put/call: il rapporto tra opzioni di protezione (put) e di acquisto (call) fotografa il livello di copertura e, di riflesso, la paura o l’avidità degli operatori.
  • Volatilità (VIX): un VIX basso riflette compiacenza e tranquillità; un VIX elevato segnala tensione e avversione al rischio.
  • Domanda di asset rifugio: confronta il rendimento delle obbligazioni investment grade con quello delle azioni, valutando la fuga verso i Treasury nei momenti di stress.
  • Spread high yield vs. investment grade: un allargamento dello spread tra obbligazioni speculative e di qualità indica crescente percezione del rischio di credito.

Ciascuno di questi fattori viene normalizzato su una scala storica e combinato in modo ponderato per produrre un punteggio unico. La logica è che i mercati non sono mossi solo da dati fondamentali ma anche da reazioni emotive collettive che, se misurate, possono fornire spunti contrarian.

Dal punto di vista operativo, il Fear & Greed Index non è un segnale di trading meccanico, bensì un indicatore di sentiment da integrare in una più ampia analisi macroeconomica e fondamentale. Per esempio, livelli di “paura estrema” (0–25) spesso coincidono con fasi di eccesso ribassista e possono offrire opportunità per investitori con orizzonte di medio-lungo termine, purché supportate da valutazioni fondamentali e condizioni di liquidità adeguate. Viceversa, quando l’indice segnala “avidità estrema” (75–100), il mercato tende a prezzare scenari ottimistici al limite della sostenibilità: in queste fasi la disciplina nella gestione del rischio e il riequilibrio del portafoglio assumono particolare importanza.

Per i consulenti finanziari, utilizzare il Fear & Greed Index significa contestualizzare le scelte dei clienti. Non si tratta di suggerire market timing, ma di spiegare perché il sentiment collettivo può amplificare i movimenti dei prezzi e influenzare le percezioni di rischio. In periodi di volatilità, questo strumento aiuta a mantenere il dialogo con l’investitore ancorato a dati misurabili, evidenziando che la volatilità non è solo minaccia ma anche occasione di ingresso se inserita in una strategia disciplinata e ben diversificata.

In definitiva, il Fear & Greed Index rappresenta una lente utile per interpretare le dinamiche di mercato: un compendio di indicatori tecnici e di flussi che, pur non avendo valore predittivo assoluto, offre una fotografia istantanea dell’equilibrio tra paura e avidità, due forze che da sempre alimentano i cicli finanziari.

Stagflazione: perché oggi torna a far paura e quali fattori possono alimentarla

Stagflazione: perché oggi torna a far paura e quali fattori possono alimentarla

Negli ultimi anni le parole “inflazione” e “recessione” sono tornate al centro del dibattito economico. Ma esiste una combinazione ancora più temuta: stagflazione, una situazione in cui l’economia frena mentre i prezzi continuano a salire. Un paradosso che mette in difficoltà governi, banche centrali, imprese e risparmiatori.

Cos’è la stagflazione

La stagflazione unisce stagnazione economica e inflazione elevata. Di solito, quando la crescita rallenta, anche i prezzi tendono a raffreddarsi. In questo caso, invece, accade l’opposto: il PIL resta debole, la disoccupazione può salire e nel frattempo il costo della vita aumenta. Il termine fu coniato nel Regno Unito negli anni ’60 e divenne famoso nel decennio successivo, quando le crisi petrolifere portarono a un’impennata dei prezzi energetici e a un blocco della produzione industriale.

Le cause di una trappola economica

Alla base di un episodio di stagflazione troviamo spesso shock dell’offerta: un improvviso aumento dei costi energetici o interruzioni delle catene di approvvigionamento fanno salire i prezzi e, nello stesso tempo, rallentano la produzione. Anche politiche monetarie e fiscali troppo espansive possono contribuire: liquidità abbondante e spesa pubblica elevata spingono la domanda, ma se la capacità produttiva è limitata l’inflazione prende il sopravvento mentre la crescita resta anemica.

I rischi per famiglie, imprese e mercati

Questo scenario è insidioso perché colpisce su più fronti. L’inflazione erode il potere d’acquisto: stipendi e risparmi perdono valore reale, e chi vive di reddito fisso fatica a mantenere lo stesso tenore di vita.

Per le imprese, costi crescenti e domanda debole comprimono i margini e riducono la propensione a investire. Le banche centrali, nel frattempo, si trovano davanti a un dilemma: alzare i tassi per domare l’inflazione rischia di aggravare la stagnazione; lasciarli bassi può far radicare le aspettative di prezzi alti.

I mercati, infine, diventano più volatili. Azioni e obbligazioni tradizionali possono soffrire contemporaneamente, mettendo alla prova anche i portafogli più prudenti.

Le tensioni globali di oggi: benzina sul fuoco

Nel contesto attuale, guerre commerciali e conflitti militari amplificano i rischi di inflazione e shock dell’offerta. Tra i fattori più rilevanti:

  1. Energia e materie prime
    • Aumenti o interruzioni nell’offerta di petrolio e gas, dovuti a sanzioni o attacchi a infrastrutture, spingono in alto i costi di produzione e trasporto.
    • Blocchi o restrizioni sulle esportazioni di metalli industriali e terre rare, fondamentali per elettronica e batterie, possono far lievitare i prezzi lungo l’intera catena produttiva.
  2. Catene globali di approvvigionamento
    • Dazi e barriere commerciali creano colli di bottiglia, aumentando i costi dei beni intermedi e finali.
    • Eventuali chiusure di rotte strategiche – come quelle del Mar Rosso o dello Stretto di Taiwan – allungano i tempi di consegna e rincarano le spedizioni.
  3. Cibo e fertilizzanti
    • Conflitti in aree chiave per grano e cereali, o restrizioni su fertilizzanti come l’urea, possono far salire rapidamente i prezzi alimentari.
    • Eventi climatici estremi, come siccità o alluvioni, aggravano le tensioni e i costi.
  4. Mercato del lavoro
    • Guerre e migrazioni forzate riducono la disponibilità di manodopera in alcuni settori, facendo salire i salari.
    • Le richieste di aumenti per compensare l’inflazione possono innescare una spirale salari-prezzi.
  5. Politiche economiche e valutarie
    • Sanzioni finanziarie e controlli sui capitali possono far aumentare i costi di finanziamento e indebolire alcune valute, importando inflazione.
    • Sussidi e spesa pubblica eccessiva, se mal calibrati, possono sostenere la domanda e alimentare nuovi rincari.

Siamo davvero a rischio?

Gli ingredienti non mancano: tensioni geopolitiche, rincari energetici, catene di fornitura sotto stress, pressioni salariali. Sono tutti elementi che ricordano i presupposti della stagflazione degli anni ’70. Tuttavia la situazione non è ancora compromessa: le decisioni delle banche centrali, la capacità di diversificare le fonti energetiche e gli investimenti in produttività possono ancora fare la differenza.

In conclusione, la stagflazione non è solo un termine da manuale di economia: è una possibilità concreta quando tensioni geopolitiche e guerre commerciali riducono l’offerta e alimentano l’inflazione. Comprendere questi meccanismi e preparare strategie di investimento adeguate è oggi più che mai essenziale per proteggere il patrimonio e affrontare con lucidità le sfide dei mercati globali.

Capitale “protetto” e capitale “garantito”: le parole che fanno davvero la differenza

Capitale “protetto” e capitale “garantito”: le parole che fanno davvero la differenza

Nel mondo degli investimenti termini come “capitale protetto” e “capitale garantito” sono spesso usati come sinonimi.

In realtà descrivono concetti giuridici e finanziari profondamente diversi, che ogni risparmiatore dovrebbe conoscere per investire con consapevolezza.

Capitale protetto: una strategia, non una promessa

Uno strumento a capitale protetto è progettato per ridurre o azzerare le perdite di capitale a scadenza, ma non prevede un obbligo legale esterno di rimborso integrale.

Come funziona

  • La protezione può essere parziale o fino al 100%, ottenuta combinando obbligazioni a basso rischio, opzioni e derivati.
  • Il risultato finale dipende dalla solidità dell’emittente e dall’efficacia della struttura finanziaria.

Esempi

  • Certificati a capitale protetto: prodotti strutturati che mirano a restituire il capitale a scadenza, salvo insolvenza dell’emittente.
  • Fondi protetti: gestioni che cercano di limitare le perdite con strategie conservative.
  • Titoli di Stato: BTP, BOT, CCT rimborsano a scadenza il valore nominale, ma la protezione dipende dalla solvibilità dello Stato.

Rischi reali

  • Rischio emittente: se l’emittente fallisce, la protezione svanisce.
  • Mercato secondario: vendere prima della scadenza può comportare perdite.
  • Inflazione: la protezione è solo nominale, non del potere d’acquisto.

Titoli di Stato e clausole CACs: un approfondimento necessario

I titoli pubblici italiani sono percepiti come tra gli investimenti più sicuri, ma presentano una peculiarità spesso poco conosciuta: le Collective Action Clauses (CACs).

Cosa sono

Le CACs sono clausole di azione collettiva inserite in tutte le nuove emissioni di titoli di Stato dell’Eurozona con durata pari o superiore a un anno a partire da gennaio 2013, in attuazione del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e disciplinate in Italia dal D.M. 7 dicembre 2012 del MEF.

Perché contano

In caso di grave crisi del debito, le CACs consentono di modificare le condizioni di rimborso (scadenze, tassi d’interesse, importo del capitale) se lo decide una maggioranza qualificata dei detentori, tipicamente il 75%, senza necessità del consenso unanime.

Implicazioni per il risparmiatore

  • Chi possiede BTP o altri titoli di nuova emissione può essere vincolato a una ristrutturazione anche se vota contro.
  • Le CACs rendono più ordinata una possibile rinegoziazione del debito, ma confermano che i titoli di Stato, pur a capitale protetto, non equivalgono a rischio zero.

Capitale garantito: un impegno contrattuale

Uno strumento a capitale garantito offre invece una garanzia giuridica di restituzione del capitale nominale, prevista nel contratto e sostenuta da un soggetto ben identificato.

Esempi e riferimenti

  • Buoni Fruttiferi Postali (BFP): titoli emessi da Cassa Depositi e Prestiti e garantiti dallo Stato italiano.
  • Certificati di deposito (CD): coperti dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) fino a 100.000 € per depositante per banca (art. 96 D.Lgs. 385/1993 – Testo Unico Bancario).
  • Polizze vita di Ramo I: disciplinate dal Codice delle Assicurazioni Private (D.Lgs. 209/2005). Il capitale è investito in una gestione separata e la compagnia assicura la restituzione del capitale versato.

Limiti della garanzia

  • Rischio del garante: se banca, assicurazione o Stato diventano insolventi, il rimborso dipende da fondi di tutela e procedure di liquidazione.
  • Garanzia solo nominale: nessuna protezione contro l’inflazione.
  • Costi e riscatti anticipati: penali e spese possono ridurre l’importo effettivamente rimborsato.

Le reti di sicurezza italiane: FITD e Fondo IVASS

Molti risparmiatori confidano nei fondi di garanzia previsti dalla legge. È importante conoscerne la reale capacità.

Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD)

  • Funzione: rimborsa i depositi bancari fino a 100.000 € per depositante per banca.
  • Dotazione: circa 4–5 miliardi di euro, con obiettivo normativo UE dello 0,8% dei depositi protetti (circa 6–7 miliardi).
  • Capacità: può chiedere contributi straordinari alle banche e accedere a linee di credito, ma in caso di default di un grande istituto potrebbe servire anche l’intervento pubblico.

Fondo di Garanzia IVASS (art. 285-bis Codice delle Assicurazioni)

  • Funzione: tutela i contratti vita in caso di insolvenza della compagnia.
  • Finanziamento: contributo annuo delle imprese vita pari allo 0,5 ‰ dei premi raccolti.
  • Dotazione: nell’ordine di 500–600 milioni di euro.
  • Capacità: può subentrare nei contratti o rimborsare i contraenti, ma non coprirebbe il fallimento simultaneo di grandi gruppi assicurativi.

Questi fondi sono pensati per affrontare il default di singoli intermediari, non per crisi sistemiche.

Confronto sintetico

CaratteristicaCapitale ProtettoCapitale Garantito
Natura della tutelaStrategia d’investimentoImpegno contrattuale/legale
EsempiCertificati protetti, fondi protetti, titoli di Stato con CACsBFP, certificati di deposito (FITD), polizze vita Ramo I
Garanzia di rimborsoDipende dalla solvibilità dell’emittentePrevista da contratto e fondi di garanzia
Protezione inflazioneNoNo
Rischio residuoMedio/basso ma presenteBasso, legato alla solidità del garante

Messaggio chiave

  • Capitale protetto: protezione perseguita con strategie finanziarie, ma senza promessa legale assoluta.
  • Capitale garantito: obbligo contrattuale di restituzione del capitale nominale, sostenuto da un soggetto identificato e da fondi di garanzia con dotazioni definite.
  • Titoli di Stato: rientrano tra gli strumenti a capitale protetto, con l’ulteriore elemento delle CACs che consente ristrutturazioni decise a maggioranza.

Conclusione

Nessun investimento, neppure il più “sicuro”, è privo di rischio.

Comprendere chi garantisce o protegge il capitale, quali fondi di garanzia intervengono e quali clausole contrattuali (come le CACs) possono modificare le condizioni di rimborso è la vera forma di protezione del risparmiatore.

La sicurezza non è una parola stampata su un depliant, ma una scelta consapevole, costruita con informazione, diversificazione e un’attenta valutazione del rischio emittente.

Debito USA: la nuova normalità è un’offerta “strutturale” di Treasury

Debito USA: la nuova normalità è un’offerta “strutturale” di Treasury

C’è un filo rosso che unisce conti pubblici, politica monetaria e mercati: l’America spende molto, si finanzia senza tregua e paga interessi sempre più pesanti. A fine 2° trimestre 2025 il debito federale totale era 36,21 trilioni di dollari (serie FRED), mentre il debito “held by the public” superava 28,98 trilioni; su base PIL, parliamo di circa 119% per il debito totale e 95% per la sola quota detenuta dal pubblico. Sono livelli alti, consolidati e difficili da invertire senza scelte di politica fiscale molto nette. 

Il flusso di “rosso”: deficit, voci in entrata e in uscita

Ad agosto 2025 il deficit mensile si è attestato a 345 mld (−9% a/a), complice il boom dei dazi che ha gonfiato gli incassi doganali. Con un mese alla fine del FY, il disavanzo cumulato era ~$1,97 tn, e le stime di consenso per l’intero esercizio ruotano attorno a $1,8–1,9 tn. Dietro i numeri, i tracker di CBO/BPC mostrano un quadro coerente: entrate in crescita (record storico YTD) ma spese che crescono quasi allo stesso ritmo, con interessi, Social Security e Medicare tra i driver. Nel documento TBAC di luglio si vede bene la composizione: dogane in forte aumento, istruzione in calo per effetti una tantum 2024, Tesoro in su per il maggior costo degli interessi. 

Quanto scade (presto) e perché conta

Il problema non è solo “quanto” ma “quando”. La scadenza media del debito negoziabile resta corta per un emittente G7: fonti ufficiali e parlamentari collocano l’average maturity intorno a 72 mesi a metà 2025, in lieve allungo rispetto a un anno prima ma non abbastanza da “disaccoppiare” il costo medio dai tassi correnti. Inoltre, circa il 31% del debito negoziabile in mano al pubblico maturerà entro 12 mesi: una “maturity wall” che obbliga il Tesoro a rifinanziare volumi ingenti trimestre dopo trimestre. 

Questa parete corta è anche frutto della scelta (razionale) di usare molti Treasury bills per ricostituire cassa e assorbire fabbisogni: nella presentazione TBAC il caso base fissa la quota Bills al 20,7% (luglio 2025) nei percorsi “prorated”. Più Bills significa flessibilità e domanda naturale dai fondi monetari, ma anche maggiore velocità con cui i tassi di mercato si trasferiscono sul costo medio del debito. 

Cosa sta facendo il Tesoro (e cosa intende fare)

1) Guidance e stime di borrowing. Nella finestra luglio–settembre 2025 il Tesoro ha indicato $1,007 tn di emissione netta (privately-held) e un TGA (cassa) a $850 mld a fine settembre; per ottobre–dicembre 2025 la stima è $590 mld netti, sempre con target cassa $850 mld a fine trimestre. Sono numeri che ancorano le aspettative del mercato e spiegano perché l’offerta di carta USA vada considerata “strutturale”. 

2) Mix d’offerta e TIPS. Nelle ultime Quarterly Refunding i dealer si aspettavano taglie stabili su nominali e FRN, con incrementi graduali sui TIPS (riapertura 10Y di settembre +$1 mld; nuovo 5Y di ottobre +$1 mld). L’obiettivo è ampliare e “fissare” una base d’investitori più sensibile all’inflazione, senza stressare troppo le scadenze lunghe nominali. 

3) Programma di buyback. Dal maggio 2024 è operativo un buyback regolare su titoli off-the-run per sostenere la liquidità del secondario. La schedule pubblicata a fine luglio dettaglia operazioni su TIPS 1–10 anni e su nominali 1 mese–30 anni, con massimi per asta tra $0,5 e $4 mld a seconda dei bucket. È un “paracadute” anti-frammentazione: aiuta quando si formano “lacune” di liquidità su specifici CUSIP. 

La domanda: chi compra? (E cosa guardano gli esteri)

La colonna estera resta importante. A luglio 2025 le detenzioni estere hanno toccato un record storico ($9,159 tn), trainate da Giappone e Regno Unito, mentre la Cina ha ridotto ai minimi dal 2008. È un segnale doppio: da un lato la “core demand” per il safe asset globale è viva; dall’altro la composizione geografica si sposta e può diventare più volatile nel tempo. 

Anche alle aste primarie, la TBAC monitora la componente estera: la presenza c’è, ma non è un rubinetto infinito. Da qui l’importanza dei buyback (per il secondario) e di un profilo di offerta prevedibile (per il primario). 

La cornice di politica monetaria: QT, RRP e SRF

La Fed ha rallentato il QT due volte: dal giugno 2024 il cap sui Treasury è sceso a $25 mld/mese, e dal 1° aprile 2025 è stato ulteriormente ridotto a $5 mld/mese (cap MBS invariato a $35 mld, con reinvestimento dell’eccesso in Treasury). Contemporaneamente, l’uso della RRP si è sgonfiato quasi a zero dai picchi 2022, segno che il “cuscinetto” di liquidità si è trasferito verso Bills e riserve bancarie. A metà settembre, in corrispondenza di scadenze fiscali/settlement, la Standing Repo Facility ha visto un utilizzo record ($18,5 mld): nulla di sistemico, ma un promemoria che, con RRP drenata, è la SRF a fare da valvola di sicurezza. 

Il conto degli interessi: la voce che corre più veloce

Nel 2025 il governo ha già speso circa $1,1 trilioni in interessi (YTD ad agosto). Questo dato, aggiornato dal portale ufficiale del Tesoro, è il termometro migliore per capire quanto la “maturity wall” e i tassi reali alti stiano cementando coupon più onerosi nel portafoglio. È anche il punto su cui convergono le agenzie di rating quando parlano di “erosione del margine di manovra”

Rating e governance fiscale

Sul fronte reputazionale, il quadro è chiaro: Fitch ha confermato AA+ (outlook stabile) il 22 agosto 2025; Moody’s ha declassato a Aa1 il 16 maggio 2025 (outlook stabile). Tradotto: gli Stati Uniti restano emittente di altissima qualità con una flessibilità di finanziamento unica (dollaro/mercato), ma deficit e interessi sono un vincolo strutturale che pesa sulla traiettoria di lungo periodo. 

Dove s’inceppa la macchina: le difficoltà strutturali

Deficit “viscoso” (anche al netto dei cicli), maturità media non lunga, costo del servizio in accelerazione e domanda estera composita. La TBAC elenca anche gli effetti di policy (dazi, misure di spesa/entrata) sulle entrate e segnala che l’incertezza resta elevata sulle proiezioni 2026–2027. Il messaggio operativo è che l’offerta netta di Treasury resterà elevata su più trimestri, con Bills come cuscinetto e TIPS in leggero aumento per allargare la base. 

I rischi di mercato: dal “term premium” alle aste difficili

Con una supply così ampia e persistente, il term premium può restare più alto e volatile lungo il 5–30 anni, specie se le aste lunghe mostrano tail sopra media o coperture meno “sticky”. Ogni scossone sulla duration si propaga ai tassi reali, che a loro volta comprimono i multipli equity (settori long-duration come tech e real estate) e allargano gli spread sul credito. In più, la liquidità non è uniforme: sugli off-the-run il premio di liquidità tende a riaprirsi nelle fasi di volatilità—e i buyback servono proprio a limitare queste dislocazioni, non a eliminarle. 

Che cosa significa, in pratica, per chi gestisce portafogli

Bills vs “cuscinetto” di sistema. Con la RRP quasi drenata e il QT rallentato, i Bills restano ben assorbiti dai fondi monetari (che hanno WAM medio ~38 giorni a fine giugno, limite regolamentare 60). La domanda c’è, ma chiede un premio coerente con alternative di repo e SRF. Sulle scadenze leggermente più lunghe (13–26 settimane), il roll-down resta interessante finché i tagli Fed sono incerti e la curva resta “alta” sul breve. 

TIPS e tassi reali. Il Tesoro sta aumentando gradualmente i TIPS: bene per diversificare la base e “spezzare” un po’ il beta dei real yield. Attenzione però: con l’inflazione core che fa fatica a rientrare, è il tasso reale a muovere i prezzi; nei drawdown i TIPS possono comunque soffrire via real yield in salita (anche se il breakeven tiene). 

Aste, micro-liquidità e buyback. Nei periodi di settlement/tasse (quarter-end, date “pesanti”) il funding si tende: lo si è visto a metà settembre con SRF record. In quelle fasi conviene seguire bid-to-cover, tail e calendario buyback: esitazioni sul 20–30Y spesso si propagano subito a MBS e credito IG via tassi reali, e i buyback aiutano a ricucire gli spread su CUSIP meno liquidi. 

Equity e credito. Con > $1 tn di interessi annui, ogni risalita dei rendimenti a lunga si traduce in de-rating dei multipli (soprattutto growth) e in spread più larghi—non necessariamente per deterioramento del credito, ma per la mancata compressione dei tassi reali. Per chi è long duration risk, la gestione tattica della curva e della componente reale diventa cruciale.

Conclusione: il premio a termine è il nuovo metronomo del rischio

Gli Stati Uniti restano l’emittente “core” del mondo: profondità senza eguali, liquidità e una domanda di base resiliente. Ma la combinazione deficit elevati + parete di scadenze ravvicinate + interessi in accelerazione rende lo shock d’offerta una caratteristica permanente del nuovo regime. Il Tesoro sta facendo molto sul lato offerta (QRA prevedibili, buyback di liquidità, più TIPS), la Fed ha modulato il QT, ma la traiettoria del debito è, in ultima analisi, fiscale. Finché non ci sarà un ancoraggio credibile dei conti, i mercati chiederanno un premio a termine più alto—ed è quel premio, oggi, a scandire il ritmo del rischio globale.