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Insights

Private Markets: tra nuove opportunità e rischi sottotraccia. Perché oggi se ne parla (così tanto)

17/11/2025

Private Markets: tra nuove opportunità e rischi sottotraccia. Perché oggi se ne parla (così tanto)

Massimiliano Silla

Negli ultimi anni il dibattito attorno ai private markets si è intensificato, spesso con toni entusiastici, altre volte con cautela e una punta di inquietudine. Una cosa, però, è certa: siamo di fronte a un cambiamento strutturale nel modo in cui gli investimenti alternativi stanno entrando nella vita dei risparmiatori.

Fino a non molto tempo fa, l’universo dei private markets era appannaggio quasi esclusivo dei grandi investitori istituzionali. Una sorta di club chiuso – per capitali, competenze e orizzonti temporali – dove si muovevano fondi pensione, assicurazioni, fondazioni, family office.

Oggi, invece, grazie all’evoluzione normativa (ELTIF 2.0, PIR alternativi) e alla spinta delle piattaforme fintech, quei confini si sono allargati. E sempre più risparmiatori privati iniziano a chiedersi se sia arrivato il momento di “mettere un piede” in questo mondo.

Ma è davvero un’opportunità per tutti?

E perché, parallelamente, molte authority internazionali stanno lanciando segnali di allarme, al punto che si parla della possibilità che la prossima crisi finanziaria possa partire proprio dai private markets?

Proviamo a fare chiarezza.

Cosa sono davvero i private markets

Quando parliamo di private markets, parliamo di investimenti che non passano dai mercati regolamentati.

Non ci sono quotazioni giornaliere, non esistono book di negoziazione, non c’è quella trasparenza che caratterizza il mercato pubblico.

Dentro questo perimetro troviamo molte declinazioni:

  • private equity e venture capital, che finanziano la crescita o la nascita di imprese non quotate;
  • private debt e direct lending, cioè prestiti diretti alle aziende, spesso in alternativa al credito bancario;
  • fondi immobiliari e infrastrutturali;
  • investimenti in asset reali come energia, logistica, agricoltura.

È, in sostanza, un pezzo importante dell’economia reale.

Un pezzo che richiede capitali pazienti, capacità di analisi e una visione di lungo periodo.

La “democratizzazione” degli investimenti alternativi

L’introduzione del Regolamento ELTIF 2.0 ha rappresentato un punto di svolta.

Le soglie d’ingresso si sono abbassate, le regole sono state semplificate e il mercato ha colto l’occasione per costruire prodotti “semi-liquidi” destinati anche ai clienti privati.

I PIR alternativi hanno aggiunto un ulteriore tassello, consentendo di investire nell’economia reale con significativi vantaggi fiscali.

Una trasformazione accelerata dalle piattaforme digitali, che permettono sottoscrizioni rapide, frazionamenti delle quote e investimenti anche di piccola entità.

Tutto molto affascinante.

Ma la semplicità di accesso non deve ingannare: la natura dello strumento resta complessa.

Il cuore del tema: i rischi (spesso invisibili)

Chi si avvicina ai private markets deve accettare prima di tutto un concetto: non stiamo parlando di strumenti liquidi.

Qui il denaro resta vincolato per anni, a volte per un decennio. Le finestre di disinvestimento – quando presenti – sono limitate e non garantite.

La seconda caratteristica è che i valori non sono “di mercato”: sono stime.

Perizie, modelli, multipli. La volatilità sembra bassa solo perché non la vediamo, non perché non esista.

Un altro elemento cruciale è la dipendenza dal gestore: selezione degli asset, monitoraggio, governance, tempistica delle exit… tutto questo fa la differenza tra un successo e un fallimento.

Poi c’è il tema della concentrazione: molti fondi investono in poche aziende. Il rischio specifico, quindi, non è trascurabile.

E c’è l’effetto J-curve: i primi anni quasi sempre mostrano rendimenti negativi, perché i costi arrivano subito, i ritorni molto dopo.

Infine, non va dimenticato il rischio macroeconomico: tassi elevati, rallentamenti del ciclo, crisi del credito possono pesare profondamente su imprese fortemente indebitate o su progetti infrastrutturali complessi.

Perché qualcuno teme che la prossima crisi possa arrivare da qui

Negli ultimi mesi, casi come Tricolor e First Brands, negli Stati Uniti, hanno fatto scattare più di un campanello d’allarme.

Si tratta di aziende legate al credito privato, in alcuni casi con strutture finanziarie elaborate e valutazioni che, col senno di poi, si sono rivelate eccessivamente ottimistiche.

Il Governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, ha paragonato questi episodi al “canarino nella miniera”: un segnale che non va ignorato.

Il monito è chiaro: non sottovalutare fenomeni che, per dimensioni e interconnessioni, potrebbero avere ripercussioni più ampie di quanto si creda.

Perché è qui il punto: i private markets sono diventati enormi. La loro crescita non è stata accompagnata da un aumento equivalente di trasparenza o standardizzazione.

E quando un settore cresce rapidamente all’ombra della finanza tradizionale, con valutazioni interne e catene di fondi che investono in altri fondi, è legittimo chiedersi se non si stia accumulando rischio in modo poco visibile.

In alcuni casi, strumenti “semi-liquidi” offrono finestre di rimborso periodiche che, se messe alla prova da richieste massicce, potrebbero rivelarsi insostenibili.

In altri, asset illiquidi o problematici vengono ricollocati all’interno di nuovi veicoli, magari con etichette molto accattivanti.

Non si tratta di allarmismo: si tratta di osservare ciò che sta accadendo con lucidità.

Allora, come orientarsi?

La risposta, per me, è sempre la stessa: trasparenza, consapevolezza, consulenza indipendente.

Prima di investire, è fondamentale comprendere:

  • chi gestisce il fondo e con quale track record;
  • quali sono gli asset sottostanti, in quali settori, con quali rischi e quale leva finanziaria;
  • come funziona la struttura dei costi e in che modo gli incentivi del gestore sono allineati all’investitore;
  • quale quota del proprio patrimonio si può ragionevolmente destinare a strumenti illiquidi;
  • se l’orizzonte temporale personale è compatibile con quello dello strumento.

I private markets possono essere un tassello utile in un portafoglio solido, ben costruito e con obiettivi di lungo periodo.

Ma non sono, e non saranno mai, uno strumento adatto a chi cerca liquidità, semplicità o orizzonti brevi.

Conclusione

La crescente apertura dei private markets al retail rappresenta una svolta importante, e in alcuni casi positiva. Permette di finanziare imprese, infrastrutture, innovazione. Avvicina il risparmio privato all’economia reale.

Ma ogni innovazione porta con sé nuove responsabilità.

E la prima responsabilità è quella di capire. Capire cosa c’è dentro uno strumento. Capire quali rischi comporta. Capire come può reagire in condizioni di stress. Capire se davvero è coerente con i propri obiettivi.

Perché gli strumenti finanziari non sono “buoni” o “cattivi” in senso assoluto. Sono adatti o non adatti, compresi o non compresi, gestiti bene o gestiti male.

E il rischio più grande, oggi, non è investire nei private markets. È farlo senza consapevolezza.

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