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Il Cubo di Rubik è arte. E la Cassazione ci ricorda che anche il design può diventare un investimento

10/11/2025

Il Cubo di Rubik è arte. E la Cassazione ci ricorda che anche il design può diventare un investimento

Massimiliano Silla

Ci sono oggetti che attraversano le epoche senza perdere un grammo della loro forza simbolica. Il Cubo di Rubik è uno di questi. Un’icona pop nata come rompicapo, adottata da generazioni di appassionati, diventata emblema della cultura visiva degli anni ’80.

Ora, con la sentenza n. 27641/2025, la Cassazione compie un passo che sembra quasi naturale: riconosce che quel cubo di plastica colorata non è soltanto un gioco, ma un’opera dell’ingegno. Dunque, arte.

Una conclusione che, a prima vista, potrebbe sembrare più culturale che economica. In realtà, per chi osserva i mercati e investe in beni reali, questo passaggio apre un fronte interessante. Perché quando un oggetto assume uno status diverso, cambia anche il modo in cui il mercato lo percepisce — e spesso cambia anche il suo valore.

Quando l’arte nasce dove non te l’aspetti

Il punto centrale della sentenza è semplice: caduta la registrazione del marchio tridimensionale, molti ritenevano il cubo liberamente riproducibile. La Cassazione ha ribaltato il tavolo: non serve nessuna registrazione se l’opera è originale. E nel caso del Rubik Cube l’originalità è talmente evidente da rendere superflua qualunque etichetta formale.

Colori organizzati in una struttura geometrica perfetta, un meccanismo interno intelligente, una forma ormai parte dell’immaginario collettivo. È design, ma anche qualcosa di più: un linguaggio visivo. La storia di un’epoca racchiusa in un oggetto da tenere in mano.

Niente di strano, se ci pensiamo: la linea sottile che separa l’arte dal design è sempre più sfumata. Le sedute di Le Corbusier, le lampade dei Castiglioni, gli arredi di Gio Ponti sono nati come oggetti d’uso, ma oggi abitano musei, case d’asta, fondi privati. Il valore culturale, quando è evidente, supera la funzione pratica. E il mercato se ne accorge.

Il design che muove capitali

Lo vediamo ormai da anni: il design del Novecento è entrato nei portafogli di investitori e collezionisti, non come curiosità, ma come asset class emergente. Un’asset class particolare, certamente meno liquida di un titolo quotato, ma dotata di caratteristiche che oggi risultano più appetibili che mai.

In un mondo di mercati interconnessi, iperveloci, spesso dominati da nervosismo e volatilità, i beni reali con forte identità culturale funzionano come strumenti decorrelati: non seguono le logiche dei listini, non rispondono agli algoritmi, non soffrono le stagioni dell’hype. Si muovono con ritmi propri. Richiedono pazienza, visione, gusto.

Eppure, quando vengono scelti con criterio, dimostrano una sorprendente capacità di mantenere e, in alcuni casi, accrescere il proprio valore.

Il punto non è “speculare” su un oggetto pop. È comprendere che, in un portafoglio ben costruito, può trovare spazio anche ciò che unisce cultura e mercato. E il Cubo di Rubik, paradossalmente, è un esempio perfetto.

Lo status culturale come fattore economico

Il riconoscimento giuridico dato dalla Cassazione non trasforma il cubo in un nuovo bene rifugio — nessuno si aspetta una corsa all’accumulo. Ma gli conferisce un’aura diversa, quasi istituzionale. E nei mercati del collezionismo questo genere di “legittimazione” pesa.

Ogni volta che un oggetto attraversa la soglia che lo separa dalla semplice produzione industriale per entrare nel territorio dell’opera, cambia la composizione della domanda: arrivano i musei, i collezionisti tematici, chi investe in cultura e design, chi diversifica in beni non correlati.

E se la domanda aumenta mentre l’offerta resta limitata — perché l’opera originale è una, e le imitazioni diventano più rischiose legalmente — inevitabilmente si crea un dinamismo nuovo nei prezzi.

È quanto è accaduto per molti oggetti degli anni ’60 e ’70, inizialmente considerati “di tutti”, oggi battuti a cifre crescenti nelle principali case d’asta europee. Una crescita silenziosa, ma stabile. Tipica dei beni che, per essere capiti, non richiedono intermediazioni: basta guardarli.

Un invito a guardare oltre la superficie

La sentenza sul Cubo di Rubik, alla fine, non parla solo di copyright. Parla del modo in cui attribuiamo valore alle cose.

E ci ricorda che il mercato non è fatto solo di grafici e numeri: è fatto di simboli, narrazioni, identità culturali. Quando un oggetto diventa parte del nostro immaginario collettivo, smette di essere merce e diventa patrimonio.

Per chi investe, questo significa una cosa molto semplice: esiste un mondo di beni reali che merita attenzione, perché può offrire stabilità, diversificazione e — in alcuni casi — apprezzamento nel tempo. Non sono sostituti dei mercati finanziari, ma complementi intelligenti.

E il design, soprattutto quello iconico e riconoscibile, oggi gioca una partita sempre più interessante.

Il Cubo di Rubik ne è la prova: un rompicapo che continua a sfidare le nostre mani, ma soprattutto il nostro modo di pensare il valore.

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