Il mondo degli investimenti sostenibili è cresciuto così velocemente che molti risparmiatori oggi associano la sigla ESG a una sorta di bollino etico: se un prodotto è “verde”, la conseguenza implicita è che sia anche migliore. È un riflesso comprensibile, perché l’idea che il proprio denaro possa generare un impatto positivo ha un fascino immediato. Ma come spesso accade, quando qualcosa conquista il grande pubblico prima che ne maturi la comprensione, nasce un cortocircuito. E nel caso della finanza sostenibile, questo cortocircuito si chiama greenwashing finanziario.
La versione “finanziaria” del greenwashing è più sottile e, se vogliamo, più insidiosa di quella che vediamo nei prodotti di consumo. Qui non si parla di foglie sul packaging o slogan visti alla TV, ma di fondi, rating, indici e portafogli che ammiccano alla sostenibilità senza esserlo davvero. La narrazione, spesso, corre più veloce della sostanza. E a pagarne il prezzo rischiano proprio i risparmiatori che scelgono strumenti finanziari ESG convinti di fare la cosa giusta, ma senza che nessuno li abbia davvero messi in guardia su cosa sia sostenibile… e cosa invece lo sembri soltanto.
La prima verità che conviene chiarire è semplice: non tutto ciò che porta la sigla ESG è sostenibile. E non perché i gestori siano necessariamente in malafede, ma perché dentro quell’acronimo convivono approcci molto diversi. C’è chi esclude settori controversi; chi seleziona i “migliori del settore” anche se il settore è poco virtuoso; chi misura l’impatto reale; chi si affida a rating ESG esterni; chi utilizza modelli proprietari; chi fa engagement attivo e chi no. Risultato: due fondi che si definiscono ESG possono essere l’uno l’opposto dell’altro. E non è insolito che un indice “verde” ospiti aziende che, se presentate a un investitore ignaro, difficilmente verrebbero associate alla sostenibilità.
Tutto questo nasce da un equivoco di fondo: ESG non è un marchio di purezza, ma un metodo di analisi. È uno strumento per valutare rischi e opportunità a lungo termine, per capire se un’azienda è preparata alla transizione energetica, alla regolamentazione climatica, alla gestione dei dati, al rispetto dei diritti e alla qualità della governance. Non misura se un’impresa sia “buona” in senso etico, ma se sia gestita bene e con lungimiranza. Confondere le due cose produce aspettative irreali e, spesso, grande delusione.
C’è poi un altro tema cruciale, che molti risparmiatori ignorano: chi decide cosa è sostenibile? Il più delle volte sono le agenzie di rating ESG, che tuttavia non adottano criteri uniformi. Può accadere che un’azienda riceva un giudizio elevato da un’agenzia, mediocre da un’altra e basso da una terza. Non perché qualcuno sbagli, ma perché la metodologia cambia: alcuni modelli premiano la trasparenza, altri la performance ambientale, altri ancora la gestione del rischio. È il motivo per cui talvolta sembra sostenibile chi comunica bene, più che chi fa bene. Nel mondo del greenwashing finanziario, la parola “disclosure” pesa quanto l’impronta ambientale reale.
Tutto questo rende più complesso per un investitore orientarsi. Ma non significa che gli strumenti ESG siano inutili o illusori: al contrario, quando sono ben costruiti, rappresentano un modo efficace per ridurre rischi di lungo periodo e per investire in aziende più preparate al futuro. Bisogna solo saper leggere oltre l’etichetta. E non serve diventare analisti ESG per farlo.
La prima regola è non fermarsi al nome del fondo. I prodotti si chiamano “Green”, “Climate”, “Sustainable” con grande generosità, ma è il prospetto – non il titolo – a raccontare davvero dove finiscono i soldi degli investitori. Bisogna capire se la strategia è basata su esclusioni, su un approccio “best in class”, oppure su criteri d’impatto. Serve poi informarsi su quali rating vengono utilizzati, interni o esterni, e verificare la loro coerenza. Infine, un accorgimento banale ma potentissimo: guardare le prime dieci posizioni in portafoglio. Perché la sostenibilità di un fondo non è nella documentazione, ma nei titoli che compra.
Nel frattempo, anche il legislatore europeo sta ridefinendo il campo di gioco. La Direttiva (UE) 2024/825, che entrerà pienamente in vigore dal settembre 2026, mette fine ai claim ambientali generici e impone trasparenza, prove e verificabilità. Parallelamente, la più ambiziosa Green Claims Directive, che avrebbe introdotto verifiche preventive sui claim “verdi”, ha subito un rallentamento nel 2025: non per rinunciare all’obiettivo, ma perché applicarla anche alle micro-imprese rischiava di creare un carico amministrativo insostenibile. Non è una marcia indietro, ma un processo che richiede equilibrio tra tutela degli investitori e realismo operativo.
In Italia, il recepimento della direttiva 2024/825 avviato nel novembre 2025 aggiorna il Codice del Consumo proprio nella direzione attesa: definire cosa sono le asserzioni ambientali, introdurre controlli più severi e rendere sanzionabili i messaggi fuorvianti. Un passo inevitabile in un Paese in cui il marketing “green” in finanza è cresciuto a ritmi tali da richiedere regole nuove.
Il messaggio per i risparmiatori, dunque, non è quello di diffidare degli strumenti ESG. Sarebbe ingiusto e miope. Il punto è un altro: smontare la credenza che un’etichetta basti a definire la qualità o la sostenibilità reale di un investimento. La sostenibilità vera è complessa, richiede metriche, dati, verifiche e coerenza. Quella raccontata è semplice, seducente e spesso fuorviante.
Oggi più che mai la differenza tra le due fa la differenza. Chi sceglie strumenti finanziari sostenibili non dovrebbe chiedersi “questo fondo è ESG?”, ma “come lo è, e con quali evidenze?”. È una domanda piccola, ma è la più grande forma di protezione che un investitore possa darsi.
Perché nella finanza, come nella sostenibilità, ciò che è reale non teme il confronto con la trasparenza. Chi fa greenwashing sì.
OCF n. 2425 del 19/03/2024
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