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Cirio, il gusto amaro di un crack: quando un marchio leggendario diventò un caso finanziario

14/10/2025

Cirio, il gusto amaro di un crack: quando un marchio leggendario diventò un caso finanziario

Massimiliano Silla

C’è stato un tempo in cui “Cirio” significava Italia. Pomodori, conserve, sapori familiari. Un marchio nato a Torino nel 1856 grazie all’intuizione di Francesco Cirio, pioniere della conservazione alimentare e dell’esportazione del made in Italy nel mondo. Un simbolo di affidabilità e tradizione.

Poi, molto più tardi, Cirio divenne tutt’altro: un nome legato a uno dei più dolorosi fallimenti finanziari della storia recente, un crac che ha bruciato i risparmi di decine di migliaia di piccoli investitori.

Dall’agroalimentare al “gruppo Cragnotti”

La parabola si compie negli anni Novanta, quando Sergio Cragnotti, manager carismatico e ambizioso, trasforma il marchio in un conglomerato finanziario e industriale. È l’epoca dell’Italia rampante, dei grandi sogni di espansione, del credito facile.

Cragnotti compra e ricompra: dalle conserve Cirio-Bertolli-De Rica a Del Monte, fino alla Centrale del Latte di Roma. Persino la S.S. Lazio, di cui diventa proprietario e simbolo. L’idea è quella di costruire un gruppo alimentare integrato e internazionale, ma la crescita è finanziata a leva, cioè con un uso massiccio del debito.

Per sostenere questa macchina complessa, Cirio ricorre a emissioni obbligazionarie collocate anche al pubblico retail, tramite il circuito bancario. Migliaia di risparmiatori italiani acquistano quei titoli, spesso convinti che “Cirio” fosse sinonimo di solidità, come un Buono del Tesoro con un’etichetta più familiare.

In realtà, dietro l’immagine rassicurante si celava un sistema fragile, fondato su una catena di garanzie infragruppo e veicoli finanziari esteri. Bastava un ingranaggio fuori posto per far saltare tutto.

L’innesco del disastro

Quel momento arriva l’8 novembre 2002, quando Cirio Finance Luxembourg non riesce a rimborsare un prestito obbligazionario da 150 milioni di euro. È il classico “default tecnico”, ma le clausole contrattuali fanno scattare un effetto domino: il cross-default che coinvolge le altre sei emissioni del gruppo, per un valore complessivo di oltre 1,1 miliardi di euro.

In poche ore, il sogno Cirio si trasforma in un incubo finanziario. Le obbligazioni diventano carta straccia. Le banche smettono di rifinanziare il gruppo. Gli investitori si scoprono esposti a un rischio che nessuno aveva realmente percepito.

Nel frattempo emergono tensioni di liquidità, squilibri patrimoniali e sospetti di false rappresentazioni contabili. La struttura finanziaria — intricata, opaca, indebitata — non regge più.

Il 7 agosto 2003, il Tribunale di Roma dichiara lo stato di insolvenza di varie società del gruppo (tra cui Cirio Holding, Cirio Finanziaria e Cirio Del Monte Italia) e apre la procedura di amministrazione straordinaria, la cosiddetta “Prodi-bis”, riservata alle grandi imprese in crisi.

La lunga coda giudiziaria e i pochi spiccioli ai risparmiatori

Nei mesi successivi partono le indagini penali su manager e intermediari. Cragnotti si difende, ma la giustizia segue il suo corso: nel tempo vengono accertate responsabilità per bancarotta fraudolenta, fino alla condanna definitiva a 5 anni e 3 mesi, pronunciata il 12 marzo 2021, dopo un lungo iter processuale.

Intanto, le procedure concorsuali avanzano lentamente. Solo nel 2010 arriva il primo riparto parziale ai creditori di Cirio Del Monte Italia: i privilegiati vengono soddisfatti integralmente, ma gli obbligazionisti chirografari — cioè i piccoli risparmiatori — ricevono appena il 6,2% del valore nominale dei titoli.

In totale, oltre 30–35 mila famiglie italiane si ritrovano con in mano obbligazioni divenute quasi senza valore.

Perché Cirio è fallita davvero

Guardando oggi la vicenda con occhi freddi, le cause appaiono chiare:

  • un eccesso di leva finanziaria che ha moltiplicato il rischio operativo;
  • una struttura societaria complessa e interconnessa, che ha diffuso il contagio tra le controllate;
  • la distribuzione al pubblico retail di titoli non adeguati al profilo dei sottoscrittori;
  • una governance opaca, segnata da operazioni infragruppo e rappresentazioni contabili discutibili;
  • infine, l’assenza di un sistema di tutele efficace per i piccoli investitori, in un’epoca precedente all’entrata in vigore della normativa MiFID.

In altre parole, Cirio non è fallita solo per un buco di cassa, ma per una cultura del rischio distorta, dove la finanza ha divorato l’impresa industriale.

Le conseguenze: tra dolore e consapevolezza

Il crack Cirio non ha solo distrutto un gruppo industriale, ma ha lasciato un segno profondo nel rapporto tra italiani e risparmio. Molti risparmiatori, abituati a fidarsi delle banche e dei grandi marchi, scoprirono per la prima volta che un’obbligazione non è un salvadanaio garantito, ma un credito verso un’impresa che può fallire.

Quel trauma collettivo contribuì a un cambio di paradigma nella vigilanza finanziaria. Le autorità rafforzarono le regole di trasparenza e “product governance”: da lì a poco, con l’arrivo della MiFID, sarebbe diventato obbligatorio verificare l’adeguatezza dei prodotti rispetto al profilo dell’investitore.

Anche il legislatore intervenne, perfezionando le procedure di amministrazione straordinaria per le grandi imprese e migliorando la tutela dei creditori, sebbene i risultati per i risparmiatori Cirio restarono limitati.

E il marchio? Paradossalmente, “Cirio” è sopravvissuto. Oggi fa parte del consorzio Conserve Italia, che ne detiene i diritti e ne ha rilanciato la produzione. L’azienda è viva, ma la “Cirio di Cragnotti” — la holding finanziaria che ne portava il nome — è un ricordo amaro, una lezione di storia economica.

Una lezione che vale ancora oggi

Il caso Cirio resta un monito sempre attuale.

Ricorda che la fiducia non può sostituire la conoscenza, che la cedola alta nasconde spesso un rischio alto, e che anche il marchio più amato non garantisce solidità finanziaria.

Soprattutto, ricorda a tutti noi — consulenti, risparmiatori e istituzioni — che il risparmio va protetto non con la promessa del rendimento, ma con la trasparenza, la comprensione e il rispetto per chi affida il proprio denaro.

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