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Cirio, il gusto amaro di un crack: quando un marchio leggendario diventò un caso finanziario

C’è stato un tempo in cui “Cirio” significava Italia. Pomodori, conserve, sapori familiari. Un marchio nato a Torino nel 1856 grazie all’intuizione di Francesco Cirio, pioniere della conservazione alimentare e dell’esportazione del made in Italy nel mondo. Un simbolo di affidabilità e tradizione.

Poi, molto più tardi, Cirio divenne tutt’altro: un nome legato a uno dei più dolorosi fallimenti finanziari della storia recente, un crac che ha bruciato i risparmi di decine di migliaia di piccoli investitori.

Dall’agroalimentare al “gruppo Cragnotti”

La parabola si compie negli anni Novanta, quando Sergio Cragnotti, manager carismatico e ambizioso, trasforma il marchio in un conglomerato finanziario e industriale. È l’epoca dell’Italia rampante, dei grandi sogni di espansione, del credito facile.

Cragnotti compra e ricompra: dalle conserve Cirio-Bertolli-De Rica a Del Monte, fino alla Centrale del Latte di Roma. Persino la S.S. Lazio, di cui diventa proprietario e simbolo. L’idea è quella di costruire un gruppo alimentare integrato e internazionale, ma la crescita è finanziata a leva, cioè con un uso massiccio del debito.

Per sostenere questa macchina complessa, Cirio ricorre a emissioni obbligazionarie collocate anche al pubblico retail, tramite il circuito bancario. Migliaia di risparmiatori italiani acquistano quei titoli, spesso convinti che “Cirio” fosse sinonimo di solidità, come un Buono del Tesoro con un’etichetta più familiare.

In realtà, dietro l’immagine rassicurante si celava un sistema fragile, fondato su una catena di garanzie infragruppo e veicoli finanziari esteri. Bastava un ingranaggio fuori posto per far saltare tutto.

L’innesco del disastro

Quel momento arriva l’8 novembre 2002, quando Cirio Finance Luxembourg non riesce a rimborsare un prestito obbligazionario da 150 milioni di euro. È il classico “default tecnico”, ma le clausole contrattuali fanno scattare un effetto domino: il cross-default che coinvolge le altre sei emissioni del gruppo, per un valore complessivo di oltre 1,1 miliardi di euro.

In poche ore, il sogno Cirio si trasforma in un incubo finanziario. Le obbligazioni diventano carta straccia. Le banche smettono di rifinanziare il gruppo. Gli investitori si scoprono esposti a un rischio che nessuno aveva realmente percepito.

Nel frattempo emergono tensioni di liquidità, squilibri patrimoniali e sospetti di false rappresentazioni contabili. La struttura finanziaria — intricata, opaca, indebitata — non regge più.

Il 7 agosto 2003, il Tribunale di Roma dichiara lo stato di insolvenza di varie società del gruppo (tra cui Cirio Holding, Cirio Finanziaria e Cirio Del Monte Italia) e apre la procedura di amministrazione straordinaria, la cosiddetta “Prodi-bis”, riservata alle grandi imprese in crisi.

La lunga coda giudiziaria e i pochi spiccioli ai risparmiatori

Nei mesi successivi partono le indagini penali su manager e intermediari. Cragnotti si difende, ma la giustizia segue il suo corso: nel tempo vengono accertate responsabilità per bancarotta fraudolenta, fino alla condanna definitiva a 5 anni e 3 mesi, pronunciata il 12 marzo 2021, dopo un lungo iter processuale.

Intanto, le procedure concorsuali avanzano lentamente. Solo nel 2010 arriva il primo riparto parziale ai creditori di Cirio Del Monte Italia: i privilegiati vengono soddisfatti integralmente, ma gli obbligazionisti chirografari — cioè i piccoli risparmiatori — ricevono appena il 6,2% del valore nominale dei titoli.

In totale, oltre 30–35 mila famiglie italiane si ritrovano con in mano obbligazioni divenute quasi senza valore.

Perché Cirio è fallita davvero

Guardando oggi la vicenda con occhi freddi, le cause appaiono chiare:

  • un eccesso di leva finanziaria che ha moltiplicato il rischio operativo;
  • una struttura societaria complessa e interconnessa, che ha diffuso il contagio tra le controllate;
  • la distribuzione al pubblico retail di titoli non adeguati al profilo dei sottoscrittori;
  • una governance opaca, segnata da operazioni infragruppo e rappresentazioni contabili discutibili;
  • infine, l’assenza di un sistema di tutele efficace per i piccoli investitori, in un’epoca precedente all’entrata in vigore della normativa MiFID.

In altre parole, Cirio non è fallita solo per un buco di cassa, ma per una cultura del rischio distorta, dove la finanza ha divorato l’impresa industriale.

Le conseguenze: tra dolore e consapevolezza

Il crack Cirio non ha solo distrutto un gruppo industriale, ma ha lasciato un segno profondo nel rapporto tra italiani e risparmio. Molti risparmiatori, abituati a fidarsi delle banche e dei grandi marchi, scoprirono per la prima volta che un’obbligazione non è un salvadanaio garantito, ma un credito verso un’impresa che può fallire.

Quel trauma collettivo contribuì a un cambio di paradigma nella vigilanza finanziaria. Le autorità rafforzarono le regole di trasparenza e “product governance”: da lì a poco, con l’arrivo della MiFID, sarebbe diventato obbligatorio verificare l’adeguatezza dei prodotti rispetto al profilo dell’investitore.

Anche il legislatore intervenne, perfezionando le procedure di amministrazione straordinaria per le grandi imprese e migliorando la tutela dei creditori, sebbene i risultati per i risparmiatori Cirio restarono limitati.

E il marchio? Paradossalmente, “Cirio” è sopravvissuto. Oggi fa parte del consorzio Conserve Italia, che ne detiene i diritti e ne ha rilanciato la produzione. L’azienda è viva, ma la “Cirio di Cragnotti” — la holding finanziaria che ne portava il nome — è un ricordo amaro, una lezione di storia economica.

Una lezione che vale ancora oggi

Il caso Cirio resta un monito sempre attuale.

Ricorda che la fiducia non può sostituire la conoscenza, che la cedola alta nasconde spesso un rischio alto, e che anche il marchio più amato non garantisce solidità finanziaria.

Soprattutto, ricorda a tutti noi — consulenti, risparmiatori e istituzioni — che il risparmio va protetto non con la promessa del rendimento, ma con la trasparenza, la comprensione e il rispetto per chi affida il proprio denaro.

Il ritorno del “carry trade” sullo yen: un equilibrio fragile nei mercati globali

Negli ultimi mesi si è tornato a parlare con insistenza del carry trade sullo yen giapponese, una strategia che, pur essendo tecnicamente complessa, svolge un ruolo cruciale nei flussi di liquidità globali. Il suo andamento, oggi più che mai, rappresenta un indicatore della stabilità (o fragilità) dei mercati finanziari internazionali.

Cos’è il carry trade

Il carry trade consiste nel prendere a prestito denaro in una valuta con tassi d’interesse molto bassi per investirlo in asset denominati in valute con rendimenti più elevati.

Il profitto deriva dal differenziale di tasso (interest rate differential), cioè dalla differenza tra ciò che si paga per finanziarsi e ciò che si ottiene investendo.

Finché i cambi restano stabili e il differenziale resta ampio, la strategia può risultare molto redditizia. Ma il suo equilibrio è estremamente sensibile: basta una variazione nei tassi o un movimento improvviso del cambio per ribaltare completamente i risultati.

Perché lo yen è la valuta di riferimento

Lo yen giapponese è tradizionalmente considerato la valuta di finanziamento per eccellenza nel mondo del carry trade.

Per oltre due decenni, la Bank of Japan (BoJ) ha mantenuto una politica monetaria ultra-accomodante per contrastare la deflazione e sostenere la crescita, lasciando i tassi d’interesse vicini o addirittura inferiori allo zero.

In questo contesto, prendere a prestito in yen è stato estremamente conveniente: gli investitori internazionali hanno potuto trasformare il basso costo del denaro giapponese in una leva per finanziare posizioni su titoli di Stato, obbligazioni corporate, azioni o valute più redditizie.

Un cambio di rotta (cauto) da parte della BoJ

Dopo anni di immobilismo, la Bank of Japan ha avviato — con grande cautela — una fase di normalizzazione monetaria.

Dalla primavera del 2024 i tassi d’interesse sono tornati lievemente positivi (intorno allo 0,25–0,5%) e l’istituto guidato da Kazuo Ueda ha segnalato una maggiore attenzione ai rischi inflazionistici.

Questo cambiamento, pur marginale in termini assoluti, è sufficiente a modificare la percezione del rischio associato al carry trade in yen.

Lo yen, dopo essersi indebolito fino a toccare quota 160 contro il dollaro, ha mostrato segnali di recupero, alimentati anche dalle aspettative di ulteriori rialzi e da possibili interventi verbali della BoJ sul mercato valutario.

I rischi del meccanismo

Il carry trade sullo yen è redditizio solo finché la valuta giapponese rimane debole.

Un suo apprezzamento improvviso — magari innescato da un cambiamento nella politica monetaria o da tensioni geopolitiche — può costringere gli investitori a chiudere le posizioni e a ricomprare yen per rimborsare i prestiti, generando vendite a catena su altri asset.

Questo fenomeno, noto come unwinding del carry trade, è stato osservato in diverse fasi di tensione dei mercati globali, come durante la crisi finanziaria del 2008 o nella fase iniziale della pandemia nel 2020.

Secondo alcuni analisti, un movimento simile — anche se di entità minore — potrebbe ripresentarsi qualora lo yen continuasse ad apprezzarsi.

Ripercussioni sui mercati internazionali

Il carry trade in yen rappresenta una delle principali fonti di liquidità “ombra” che alimentano i mercati finanziari.

Quando la strategia è in pieno vigore, gli investitori tendono a spingersi verso asset più rischiosi, sostenendo le quotazioni di azioni, obbligazioni ad alto rendimento e valute emergenti.

Al contrario, una fase di chiusura del carry trade può generare un deflusso di capitali e un aumento repentino della volatilità, soprattutto nei segmenti di mercato più esposti ai flussi speculativi internazionali.

Molti osservatori ritengono che questa dinamica possa amplificare movimenti già in corso, più che crearne di nuovi: il carry trade non è la causa dei cicli di mercato, ma spesso ne esaspera gli effetti.

Uno scenario in evoluzione

Al momento, la BoJ procede con estrema gradualità, cercando di non destabilizzare i mercati valutari e obbligazionari. Tuttavia, il margine di manovra resta limitato: da un lato, l’inflazione giapponese è più persistente del previsto; dall’altro, un rialzo eccessivo dei tassi rischierebbe di indebolire la fragile ripresa economica interna.

La conseguenza è che il carry trade sullo yen resta un equilibrio precario, influenzato tanto dalle decisioni di Tokyo quanto da quelle di Washington.

Finché il differenziale tra i tassi statunitensi e giapponesi rimarrà ampio, la strategia potrebbe continuare ad attrarre capitali. Ma il rischio di un’inversione improvvisa resta dietro l’angolo.

In sintesi

  • Motivo: sfruttare il differenziale di tassi tra lo yen (basso) e altre valute (più alte).
  • Contesto: la BoJ ha iniziato una cauta normalizzazione monetaria.
  • Rischio principale: un apprezzamento improvviso dello yen può innescare chiusure forzate di posizioni.
  • Possibili effetti: aumento della volatilità e deflussi di liquidità dai mercati globali.
  • Scenario attuale: fase di equilibrio instabile, con attenzione ai prossimi passi di BoJ e Fed.

L’AI e il rischio sistemico: il triangolo Oracle–Nvidia–OpenAI e la fragilità nascosta della nuova corsa all’intelligenza artificiale

Dietro l’entusiasmo per i mega-investimenti nell’intelligenza artificiale si nasconde una rete di interdipendenze finanziarie e tecnologiche che potrebbe trasformare il settore in un epicentro di rischio sistemico globale.

Nel 2025 l’intelligenza artificiale è diventata il nuovo “petrolio digitale” e i colossi che la alimentano — Nvidia, Oracle, OpenAI e pochi altri — sono ormai i custodi dell’infrastruttura che sostiene l’intera economia digitale.

Ma dietro le promesse di crescita illimitata si cela una rete di relazioni finanziarie e industriali così dense e circolari da somigliare più a un sistema bancario ombra che a una filiera tecnologica.

Il triangolo d’oro (e d’azzardo) dell’AI

Nel settembre 2025 Nvidia ha annunciato un accordo “fino a 100 miliardi di dollari” con OpenAI per costruire e alimentare 10 gigawatt di potenza computazionale, basata su GPU di nuova generazione.

Un mese dopo, Oracle ha rilanciato con un piano da circa 300 miliardi di dollari in cinque anni per ospitare l’infrastruttura cloud di OpenAI nei propri data center, integrando la piattaforma Azure di Microsoft in un’inedita architettura multicloud.

In parallelo, Nvidia fornirà a Oracle centinaia di migliaia di chip GB200 per alimentare i futuri supercomputer “Stargate”, mentre OpenAI diversifica siglando un nuovo accordo con AMD (6 GW di capacità e warrant fino al 10% del capitale).

Sulla carta, un ecosistema sinergico. Nella pratica, una catena di dipendenze incrociate: Nvidia finanzia OpenAI, che compra GPU da Nvidia, che vende infrastrutture a Oracle, che a sua volta fornisce capacità cloud a OpenAI.

Un “triangolo d’oro” apparentemente perfetto, ma che poggia su equilibri finanziari e operativi delicatissimi.

Dal vantaggio competitivo al rischio di contagio

Questo intreccio industriale è una miniera di efficienza, ma anche una bomba di complessità.

Se una sola delle tre aziende dovesse incontrare un ostacolo — tecnico, regolatorio o finanziario — l’impatto si propagherebbe lungo l’intera catena.

  • Rischio hardware: la produzione dei chip Nvidia dipende da nodi litografici avanzati di TSMC e da materiali critici (rame, silicio, terre rare). Un ritardo produttivo o una sanzione geopolitica può bloccare intere linee di calcolo AI.
  • Rischio infrastrutturale: Oracle, fornendo la base cloud su cui gira OpenAI, concentra nelle proprie mani la resilienza di servizi ormai strategici per governi e imprese. Un blackout, una vulnerabilità o una congestione di rete diventerebbero incidenti sistemici.
  • Rischio finanziario: gli impegni da centinaia di miliardi sono strutturati in più livelli di leva e previsioni di ritorno future. Se la domanda reale dell’AI — in termini di applicazioni, abbonamenti o servizi enterprise — non cresce come previsto, la pressione sui bilanci si farà pesante.
  • Rischio regolatorio e reputazionale: OpenAI è la faccia pubblica dell’intelligenza artificiale, e qualsiasi scandalo legato a bias, sicurezza o uso improprio dei dati può ricadere anche su Oracle e Nvidia, che ne sono fornitori e partner strategici.

È un ecosistema chiuso, dove il fallimento di un attore può generare effetti a catena simili a quelli di un default finanziario: rallentano le forniture, slittano i contratti, si svalutano asset e azioni, scattano margin call, i capitali si ritirano.

La bolla delle aspettative

L’attuale rally del settore AI, trainato dai titoli Nvidia, Microsoft, Oracle e AMD, ricorda per certi versi la bolla dot-com del 2000.

I multipli di valutazione restano su livelli insostenibili rispetto ai fondamentali: Nvidia capitalizza oltre 3.000 miliardi di dollari, e una parte significativa del suo valore attuale è scontata su ricavi futuri ancora ipotetici.

Nel frattempo, i costi energetici e infrastrutturali stanno esplodendo: ogni gigawatt di capacità AI richiede investimenti nell’ordine di 8–10 miliardi di dollari, e il fabbisogno elettrico dei nuovi data center potrebbe superare quello di intere nazioni europee.

L’AI, insomma, è tanto una rivoluzione tecnologica quanto una scommessa macroeconomica sull’energia, il debito e la fiducia degli investitori.

Il rischio sistemico tecnologico: una nuova Lehman digitale

Quello che emerge è un rischio sistemico tecnologico: un nuovo tipo di vulnerabilità che unisce supply chain, finanza e dati in un unico circuito chiuso.

L’interconnessione tra fornitori di chip, piattaforme cloud e sviluppatori di modelli genera un effetto domino potenziale che i mercati, finora, hanno ignorato.

Come nel 2008 la leva finanziaria nascosta nei derivati subprime era “invisibile” finché non è collassata, oggi la leva dell’AI è tecnologica e contrattuale: contratti decennali, obbligazioni su capacità future, anticipi d’investimento che dipendono dalla crescita esponenziale dei modelli.

Se quella crescita dovesse rallentare — per limiti fisici, normativi o semplicemente di domanda — il castello di previsioni potrebbe sgonfiarsi in pochi trimestri, generando un “AI crash” di proporzioni imprevedibili.

Come leggere il segnale debole

Gli investitori più accorti guardano già agli early warning:

  • il rallentamento nella domanda di GPU di fascia alta da parte dei cloud provider minori;
  • le prime indagini antitrust sulla concentrazione del mercato AI;
  • il dibattito su una “AI Tax” per coprire il consumo energetico dei data center;
  • e, soprattutto, la difficoltà crescente di trasformare l’hype in profitti sostenibili.

Oracle, Nvidia e OpenAI stanno costruendo l’infrastruttura del futuro, ma lo stanno facendo in un contesto di forte dipendenza reciproca e di capitali a leva, dove ogni promessa non mantenuta può tradursi in una frattura di fiducia.

Conclusione: la nuova interdipendenza del potere tecnologico

L’intelligenza artificiale non è solo una frontiera dell’innovazione: è anche una nuova architettura del potere economico.

Nel suo nucleo, poche aziende controllano il flusso dei dati, dell’energia e del capitale cognitivo.

È un sistema straordinariamente efficiente — e proprio per questo, fragile.

Quando tre giganti come Oracle, Nvidia e OpenAI si intrecciano a questo livello, il rischio non è più solo industriale: diventa macro-finanziario.

La storia insegna che ogni grande rivoluzione — dalle ferrovie all’elettricità, da Internet ai derivati — ha conosciuto il suo “momento di euforia” prima di trovare un equilibrio.

L’AI non farà eccezione.

Fondi pensione: impariamo a conoscerli

Per molti, la pensione è qualcosa di lontano, quasi irreale. Una linea d’arrivo che si intravede sfocata all’orizzonte, specie quando si è nel pieno dell’attività lavorativa. Ma in un mondo in cui l’età pensionabile tende ad allungarsi mentre gli assegni si assottigliano, pensare per tempo a come integrare la futura pensione pubblica non è solo prudente: è diventato necessario.

I fondi pensione sono oggi lo strumento principale per costruire una previdenza complementare, quella che spesso viene definita la “seconda gamba” del sistema. Uno strumento pensato per garantire una rendita futura, ma che in realtà può rivelarsi utile anche nel presente, grazie a regole precise che consentono – in determinati casi – di accedere al capitale accumulato prima del pensionamento.

Le caratteristiche dei fondi pensione

I fondi pensione hanno alcune caratteristiche comuni molto importanti da conoscere:

  • Sono impignorabili e non aggredibili dai creditori, anche in caso di fallimento della società che li gestisce.
  • Non concorrono alla formazione dell’ISEE, almeno fino al momento dell’erogazione della prestazione pensionistica.
  • Non fanno parte dell’asse ereditario, ma il capitale può essere liquidato ai beneficiari designati o, in mancanza, agli eredi legittimi, secondo le regole previste dal fondo.
  • Puoi aderire a più fondi pensione contemporaneamente, anche se è bene valutare attentamente se conviene farlo.
  • È possibile trasferire il montante accumulato da un fondo pensione a un altro, mantenendo l’anzianità contributiva (in genere dopo almeno 2 anni di permanenza).
  • Il capitale non è liberamente prelevabile: esistono vincoli e regole precise per riscatti, anticipazioni o rendite.
  • Il capitale è realmente investito a tuo nome, a differenza del sistema pubblico a ripartizione (es. INPS), dove i contributi versati servono a pagare le pensioni correnti.

Esistono tre principali tipologie di fondi pensione, ciascuna con caratteristiche specifiche:

1. Fondi pensione negoziali

Sono forme istituite attraverso gli accordi collettivi tra sindacati e associazioni datoriali. Ogni categoria professionale ne ha uno di riferimento: Cometa per i metalmeccanici, Fon.Te per i lavoratori del commercio, Previambiente per i servizi ambientali, solo per citarne alcuni.

Il grande vantaggio? Il contributo del datore di lavoro, che si aggiunge a quello del lavoratore. Un’opportunità da non lasciarsi sfuggire. Per ottenere questo benefit, però, è necessario destinare al fondo anche il TFR maturando.

Sono strumenti molto economici, ma hanno una gestione prudente, con comparti spesso poco dinamici. Ideali per chi cerca una soluzione sicura e a basso costo.

2. Fondi pensione aperti

Gestiti da banche, assicurazioni o SGR, sono accessibili a chiunque: lavoratori, autonomi, professionisti, anche chi ha interruzioni di carriera. Offrono più libertà nella scelta del comparto d’investimento e non richiedono per forza il conferimento del TFR.

Sono strumenti versatili, ma attenzione ai costi: alcuni fondi, soprattutto proposti dagli sportelli bancari, possono essere onerosi. Meglio affidarsi a gestori noti per la trasparenza e l’efficienza (come Amundi, Arca, Allianz).

3. Piani individuali pensionistici (PIP)

Proposti dalle assicurazioni, spesso sotto forma di polizze vita, i PIP godono della stessa fiscalità degli altri fondi, ma presentano costi generalmente più elevati e una struttura meno trasparente. Per questo, non sono sempre la scelta migliore, soprattutto per chi ha alternative più efficienti come i fondi negoziali o aperti.

Un patrimonio davvero tuo (e protetto)

A differenza dei contributi versati all’INPS, che confluiscono in un sistema a ripartizione, le somme che metti in un fondo pensione sono effettivamente tue. Vengono investite a tuo nome in comparti finanziari che puoi scegliere in base al tuo profilo di rischio, sono separate dal patrimonio del gestore, non possono essere pignorate e – cosa molto importante – in caso di decesso non rientrano nell’asse ereditario, ma possono essere trasferite ai beneficiari che hai indicato.

Questa struttura rende i fondi pensione uno degli strumenti più sicuri e protetti nel panorama finanziario italiano. E contrariamente a quanto si crede, non è detto che i soldi siano “bloccati” fino alla pensione: ci sono diverse situazioni in cui puoi accedere – in parte o in toto – alla tua posizione.

Quando puoi usare il fondo prima della pensione

Chi pensa che i fondi pensione siano “blindati” fino alla vecchiaia si sbaglia solo in parte. È vero che il capitale non è liberamente prelevabile, ma la legge prevede numerose possibilità di accesso anticipato, studiate per rispondere a momenti difficili o tappe fondamentali della vita.

Spese sanitarie gravi

In qualsiasi momento, è possibile richiedere fino al 75% della posizione accumulata per affrontare spese mediche importanti (proprie, del coniuge o dei figli). La tassazione è agevolata, dal 15% al 9% in base all’anzianità di adesione.

Acquisto o ristrutturazione della prima casa

Dopo 8 anni di adesione, si può richiedere fino al 75% della posizione per l’acquisto o la ristrutturazione straordinaria della prima casa, per sé o per i figli. Attenzione: la tassazione in questo caso è fissa al 23%.

Esigenze personali

Sempre dopo 8 anni, è possibile ottenere fino al 30% del capitale per motivi personali non specificati. Una forma di flessibilità importante, anche se limitata. La tassazione è agevolata (15%-9%).

Riscatto totale o parziale

In caso di perdita del lavoro, disoccupazione prolungata, invalidità, o cessazione dell’attività autonoma, è possibile riscattare il 100% (o in alcuni casi il 50%) della posizione. Anche qui, tassazione agevolata.

In caso di invalidità o decesso

Se il titolare subisce un’invalidità permanente, o in caso di decesso, il capitale viene interamente liquidato (agli eredi o beneficiari designati). Per gli eredi, la prestazione è totalmente esente da imposte.

Nota bene: la somma complessiva delle anticipazioni non può superare il 75% del capitale accumulato, anche se richieste in più fasi.

La grande novità del 2025: andare in pensione prima (col fondo come ponte)

Uno dei cambiamenti più interessanti introdotti dalla Legge di Bilancio 2025 riguarda proprio la funzione dei fondi pensione. Da semplice strumento integrativo, diventano ora un potenziale “ponte” per chi desidera lasciare il lavoro prima di aver maturato i requisiti INPS.

La norma prevede che, a certe condizioni (almeno 25 anni di contributi e una pensione attesa pari ad almeno tre volte l’assegno sociale), il lavoratore possa anticipare l’uscita dal mondo del lavoro, utilizzando il fondo pensione per integrare il reddito mancante. Una piccola rivoluzione che trasforma la previdenza integrativa in un vero strumento di autodeterminazione.

Ma quanto si risparmia davvero? Il ruolo della fiscalità

Uno dei motivi principali per cui i fondi pensione rappresentano una scelta vantaggiosa è il trattamento fiscale, tra i più favorevoli dell’intero ordinamento italiano. Eppure, questo aspetto viene spesso sottovalutato o frainteso.

Partiamo dai versamenti: i contributi che versi ogni anno (fino a un massimo di 5.164,57 euro) sono deducibili dal reddito complessivo. Questo significa che paghi meno tasse già nell’anno in cui versi. Più alta è la tua aliquota IRPEF, maggiore è il risparmio. Per esempio, se versi 3.000 euro e hai un’aliquota marginale del 35%, risparmi oltre 1.000 euro.

Anche i rendimenti generati dal fondo sono tassati, ma in modo agevolato. Ogni anno, infatti, il fondo versa un’imposta sostitutiva: il 20% sui rendimenti ordinari, il 12,5% su quelli derivanti da titoli di Stato. In pratica, i guadagni sono tassati “alla fonte”, e la crescita del tuo capitale è già al netto delle imposte.

Tuttavia, c’è un aspetto da non trascurare: il fatto che la tassazione avvenga ogni anno, e non solo al termine del periodo di accumulo, ha un effetto frenante sul meccanismo dell’interesse composto. In altri strumenti – come ad esempio il piano di accumulo in ETF detenuti in regime amministrato – le imposte si pagano solo al momento della vendita. Nei fondi pensione, invece, il rendimento viene “tagliato” subito da una quota fiscale, e questo riduce la base su cui maturano gli interessi negli anni successivi.

Insomma, il vantaggio fiscale iniziale e finale dei fondi pensione è indubbio, ma il prelievo anticipato sui rendimenti limita leggermente l’effetto moltiplicatore nel lungo periodo. Non è un difetto insormontabile, ma è una variabile che va tenuta presente, soprattutto per chi ha un orizzonte molto lungo e vuole confrontare strumenti alternativi.

Uno strumento utile, ma da valutare con attenzione

Con tutti questi vantaggi, verrebbe da dire che i fondi pensione siano sempre la scelta giusta. Eppure, non è così automatico. Come ogni strumento finanziario o assicurativo, vanno valutati in base alla situazione personale.

Chi ha un reddito molto basso, ad esempio, potrebbe non trarre reale vantaggio dalla deducibilità fiscale. Chi non ha un datore di lavoro che versa una quota aggiuntiva (come avviene nei fondi negoziali), potrebbe preferire altri strumenti di risparmio. E poi ci sono i costi di gestione, che variano anche in modo sensibile tra un fondo e l’altro, incidendo sui rendimenti nel lungo periodo.

Importante anche la scelta del comparto d’investimento: chi è vicino alla pensione dovrebbe evitare comparti troppo rischiosi, mentre un giovane potrebbe permettersi scelte più aggressive. Tutto questo richiede un minimo di competenza e, spesso, il supporto di un consulente indipendente può fare la differenza tra una scelta azzeccata e un’occasione persa.

In conclusione

I fondi pensione non sono un prodotto per pochi né uno strumento complicato ma come ogni scelta finanziaria importante, anche questa va fatta con attenzione: informarsi, confrontare, capire davvero come funziona il fondo e cosa offre. Perché la libertà, anche quella previdenziale, comincia sempre dalla conoscenza.

Arte e liquidità: gli artisti che (ancora) si vendono bene nel 2025

Nel mondo degli investimenti alternativi, l’arte ha un fascino tutto suo. Non si limita a essere un bene rifugio, ma rappresenta anche uno status, un linguaggio, talvolta una passione. Tuttavia, quando la si guarda con occhi da consulente patrimoniale, il quadro cambia. Qui non si parla solo di bellezza o riconoscibilità, ma di liquidabilità, ovvero della concreta possibilità di vendere un’opera nel momento giusto e a condizioni ragionevoli.

È in questa prospettiva che torna utile il recente Intelligence Report 2025 di Artnet, che ha provato a rispondere a una domanda semplice solo in apparenza: quali artisti, oggi, si vendono meglio?

Una risposta utile non solo ai collezionisti più esperti, ma anche a chi – con una visione prudente ma curiosa – considera l’arte come una componente da integrare in un portafoglio patrimoniale ben diversificato.

Quando il nome fa il mercato: Picasso, Warhol e Hockney

Tra gli artisti che garantiscono maggior “movimento” sul mercato secondario, non sorprende trovare Pablo Picasso. Il suo nome è un’istituzione, e la varietà delle sue opere – dalle ceramiche ai disegni, fino ai capolavori su tela – fa sì che ci sia praticamente sempre qualcosa in vendita, in ogni angolo del mondo.

Andy Warhol segue a ruota: la sua produzione seriale, il richiamo alla cultura pop e la sua capacità di attraversare indenne le mode lo rendono uno dei nomi più scambiati e riconoscibili. In altre parole, chi acquista Warhol sa già di poterlo rivendere, magari non con grandi guadagni, ma con tempi ragionevoli.

Un po’ più defilato ma in crescita costante è David Hockney, che si sta ritagliando uno spazio di tutto rispetto tra gli artisti moderni più liquidi. Il suo stile distintivo e la coerenza del percorso artistico lo rendono particolarmente interessante per collezionisti che cercano un buon compromesso tra notorietà e rivalutazione.

I contemporanei storicizzati: Kusama, Richter, Murakami

Il mercato contemporaneo non è fatto solo di scommesse e hype: alcuni artisti viventi sono ormai veri e propri “brand” internazionali. È il caso di Yayoi Kusama, celebre per le sue “stanze infinite” e i pois ossessivi, o di Gerhard Richter, che con la sua eleganza astratta continua a conquistare i collezionisti più tradizionali.

Accanto a loro, Takashi Murakami, che ha saputo mescolare estetica giapponese, manga e cultura occidentale, portando le sue opere a cavallo tra l’arte alta e la cultura di massa. Questi artisti non sono emergenti, né meteore: sono colonne portanti del mercato, spesso presenti nelle fiere, nei musei e soprattutto nelle case d’asta.

Chi sceglie di acquistare opere di questi nomi, lo fa con una logica simile a chi investe in blue chip finanziarie: aspettative moderate, ma rischi contenuti.

Giovani, ma già in vetrina: Boafo, Aboudia, Fadojutimi

Il 2025 conferma anche l’interesse crescente verso artisti emergenti che, nel giro di pochi anni, sono passati da outsider a nomi fissi nei cataloghi delle aste internazionali.

Amoako Boafo, pittore ghanese, è tra i più quotati della nuova generazione. Le sue opere, focalizzate su identità e rappresentazione, hanno trovato spazio nei principali musei e collezioni private.

Simile il percorso di Aboudia, che con uno stile più ruvido e “urbano” ha saputo intercettare un mercato in cerca di autenticità e narrazione sociale.

Poi c’è Jadé Fadojutimi, nata nel 1993, che con le sue tele coloratissime e stratificate ha rapidamente conquistato l’attenzione di critici e investitori.

Tutti e tre hanno in comune un elemento chiave: la velocità. Di crescita, di visibilità, ma anche – e qui va fatta attenzione – di volatilità. Chi investe su questi nomi oggi potrebbe ottenere ottimi ritorni, ma deve sapere che i prezzi possono fluttuare sensibilmente nel tempo.

La via asiatica all’investimento in arte

Non si può più parlare di mercato globale senza includere l’Asia. E anche qui ci sono nomi che spiccano per solidità e scambi frequenti.

Zao Wou-Ki e Zhang Daqian rappresentano il cuore dell’arte cinese da investimento, mentre Liu Ye, anche grazie alla recente mostra alla Fondazione Prada di Milano, si sta imponendo come ponte tra sensibilità orientale e gusto occidentale.

Per un investitore europeo, puntare su questi nomi può significare diversificazione geografica e culturale, ma anche un approccio più selettivo e informato, vista la diversa struttura del mercato asiatico.

Cosa ci insegna tutto questo?

Per chi lavora nella consulenza patrimoniale – e per chi vuole affrontare l’investimento in arte con serietà – ci sono alcune lezioni preziose:

  • Non basta il nome: non tutte le opere di un grande artista sono facilmente vendibili. Serve capire la fascia di mercato, la qualità, la provenienza, il formato.
  • Liquidità e rendimento sono due facce della stessa medaglia: un artista molto liquido, come Warhol o Picasso, può garantire stabilità, ma raramente performance straordinarie. Al contrario, i nomi emergenti offrono potenziale, ma a fronte di rischi decisamente più alti.
  • Serve una strategia di uscita: l’arte non è un investimento “usa e getta”. Prima di comprare, bisognerebbe già sapere come (e a chi) rivenderla.
  • Integrare, non sostituire: l’arte non è un’alternativa ai mercati finanziari, ma un’integrazione. Deve occupare una parte coerente – e limitata – del portafoglio, con un orizzonte temporale adeguato.

L’arte non è per tutti, ma può diventare accessibile se affrontata con metodo, strumenti e visione. Il nostro compito come consulenti finanziari indipendenti non è quello di scegliere l’opera per il cliente, ma di aiutarlo a capire quando, quanto e perché l’arte può fare parte del suo percorso patrimoniale.

Capire lo short squeeze tra teoria e realtà

Nel lessico della finanza, lo “short squeeze” rappresenta uno di quegli eventi tanto tecnici quanto spettacolari che possono sconvolgere l’equilibrio dei mercati nel giro di poche sedute. Non si tratta semplicemente di un movimento di prezzo anomalo, ma del risultato di una dinamica complessa e auto-rinforzante, innescata da un eccesso di scommesse ribassiste che, improvvisamente, si trasformano in benzina per un rally. Comprendere a fondo questo fenomeno è utile per analisti, investitori e osservatori del mercato, perché rivela in modo cristallino come funzionano le forze della domanda, dell’offerta e della leva finanziaria in contesti di stress.

Cos’è lo short selling e perché è rischioso 

La vendita allo scoperto (“short selling”) è una strategia finanziaria mediante la quale un investitore prende in prestito un titolo (tipicamente da un broker) e lo vende immediatamente sul mercato, con l’intento di ricomprarlo in seguito a un prezzo inferiore. Il guadagno potenziale deriva dalla differenza tra il prezzo di vendita iniziale e quello di riacquisto.

Questa operatività si basa sulla convinzione che il titolo sia sopravvalutato, oppure che sia destinato a scendere per motivi fondamentali o tecnici. Tuttavia, a differenza di una posizione long (acquisto tradizionale), lo short espone a perdite potenzialmente illimitate: se il prezzo del titolo sale invece di scendere, l’investitore dovrà ricomprarlo a un prezzo più alto, subendo una perdita crescente man mano che il rally continua.

Il meccanismo dello short squeeze: dinamica di una trappola

Lo short squeeze si verifica quando il prezzo di un’azione, di una commodity o di un altro asset inizia a salire in modo significativo e improvviso, costringendo chi ha posizioni short ad acquistare sul mercato per chiudere (“coprire”) le proprie esposizioni e limitare le perdite. Questo flusso di acquisti aggiuntivi alimenta ulteriormente la domanda, facendo salire ancor di più il prezzo, il che può portare altri short sellers a capitolare in una reazione a catena.

Più è alta la concentrazione di short interest (la percentuale di azioni vendute allo scoperto rispetto al flottante), più la pressione potenziale può diventare violenta. Se, a questa condizione, si aggiunge una scarsa disponibilità di titoli da acquistare sul mercato (liquidità ridotta) e un evento catalizzatore (una notizia positiva, un cambiamento normativo, una campagna di acquisto coordinata), il terreno per uno squeeze è pronto.

Short squeeze e leva finanziaria: un mix esplosivo 

Gli investitori short spesso utilizzano leva finanziaria per aumentare il potenziale rendimento delle operazioni. Tuttavia, la leva amplifica anche le perdite. Se il prezzo del titolo si muove contro la posizione short, il margine richiesto aumenta, e il broker può emettere una margin call, costringendo l’investitore a chiudere forzatamente la posizione. Questo meccanismo accelera il processo di copertura e amplifica lo squeeze.

Impatto di mercato: volatilita, euforia e rischio sistemico 

Uno short squeeze non è solo una questione di singolo titolo. Quando coinvolge asset molto seguiti o operatori di grandi dimensioni, può avere effetti a catena:

  • Aumento della volatilità: movimenti improvvisi e poco spiegabili con i fondamentali disorientano investitori e algoritmi.
  • Distorsione dei prezzi: il valore di mercato può divergere fortemente da quello intrinseco.
  • Fallimenti o stress per gli hedge fund: se le perdite superano una certa soglia, alcuni operatori possono essere costretti a liquidare altre posizioni, amplificando la pressione su altri asset.
  • Interventi regolamentari: le autorità di vigilanza possono intervenire per analizzare o limitare le dinamiche speculative, come avvenuto nel caso GameStop.

Esempi celebri nella storia dei mercati

  1. Volkswagen (ottobre 2008): In un contesto già instabile, Porsche annunciò di aver acquisito opzioni su una quota significativa di azioni VW, portando il mercato a scoprire che solo una minima parte del flottante era effettivamente disponibile. Il titolo salì fino a superare brevemente i €1.000 per azione, facendo diventare VW l’azienda più capitalizzata al mondo per un giorno.
  2. GameStop (gennaio 2021): Lanciata da investitori retail organizzati su Reddit, questa operazione vide un titolo in declino diventare simbolo di resistenza contro gli hedge fund. Il prezzo passò da circa $20 a oltre $400 in pochi giorni. Gli short sellers subirono perdite miliardarie, mentre si aprì un dibattito globale su democrazia finanziaria, trasparenza e ruolo delle piattaforme di trading.
  3. Argento (ottobre 2025): Recentemente, alcuni analisti osservano segnali coerenti con uno short squeeze sul mercato dell’argento fisico, soprattutto a Londra. La domanda fisica ha superato le disponibilità, i contratti spot sono entrati in backwardation (prezzi immediati più alti dei futures), e alcuni operatori segnalano difficoltà nel coprire le posizioni. Se confermato, questo fenomeno potrebbe rappresentare il primo squeeze su larga scala in un metallo prezioso dal 2011.

Comprendere lo short squeeze per leggere il mercato

Lo short squeeze è molto più di una curiosità tecnica: è la manifestazione estrema di tensioni tra aspettative ribassiste e forze rialziste, tra leva finanziaria e liquidità di mercato. In un mondo dove le informazioni circolano a velocità istantanea e le strategie di trading sono sempre più complesse, questi fenomeni sono destinati a ripetersi, spesso in forme nuove e più sofisticate.

Per l’investitore attento, riconoscere i segnali premonitori di uno short squeeze può significare evitare perdite potenzialmente disastrose o, al contrario, cogliere un’opportunità speculativa. Ma soprattutto, è un’occasione per ricordare che la finanza non è solo razionalità e numeri, ma anche dinamiche psicologiche e strutturali che possono sfuggire a ogni previsione.

Come paghi (davvero) il tuo consulente: i cinque modelli di costo che ogni investitore dovrebbe conoscere

C’è una domanda che ogni investitore dovrebbe porsi prima ancora di scegliere dove investire:

“Come viene remunerato il mio consulente?”

Sembra banale, ma è il punto di partenza per capire come lavora davvero chi ti consiglia come gestire i tuoi risparmi.

Dietro ogni proposta d’investimento si nasconde infatti un sistema di compensi — e non tutti allineano allo stesso modo gli interessi del cliente e del consulente.

Vediamo allora i principali cinque modelli di costo nel settore della consulenza finanziaria: come funzionano, che logica li guida e, soprattutto, quali implicazioni hanno per te come investitore.

1. Commission only: il modello tradizionale

È il sistema più antico e, in molti casi, ancora oggi il più diffuso: il consulente viene pagato dalla banca o dalla società che emette o colloca il prodotto, sotto forma di commissioni o retrocessioni.

Per il cliente, la consulenza “non costa nulla” — almeno in apparenza. In realtà, la remunerazione è già inclusa nel costo dei prodotti: fondi, polizze, gestioni, ecc.

Il problema? L’evidente conflitto di interessi. Se il guadagno del consulente dipende dal prodotto venduto, la tentazione di privilegiare ciò che paga di più è inevitabile.

Ecco perché, a livello europeo, la MiFID II impone limiti precisi: le commissioni sono ammesse solo nella consulenza non indipendente, e solo se migliorano la qualità del servizio senza danneggiare l’interesse del cliente. Nel Regno Unito, invece, sono state addirittura vietate già dal 2012.

2. Fee on top: la parcella “sopra” i costi di prodotto

Nel modello fee on top il consulente è pagato direttamente dal cliente, con una parcella in percentuale sul patrimonio o con una quota fissa, in aggiunta ai costi dei prodotti o della piattaforma.

In pratica, è come dire: “Tu paghi il mio servizio, e paghi anche i costi vivi dei prodotti che utilizziamo.”

È un sistema molto trasparente, perché separa nettamente il valore della consulenza dal costo della gestione.

Il cliente sa quanto paga per la testa del consulente e quanto per gli strumenti.

È lo standard ormai prevalente nel mondo anglosassone, dove il principio del “adviser charging” è diventato sinonimo di trasparenza e responsabilità.

L’unico punto critico? Può rappresentare un “doppio costo”, se non viene spiegato con chiarezza il valore aggiunto della consulenza rispetto al semplice prodotto.

3. Fee & commission: un modello ibrido

Come suggerisce il nome, questo sistema unisce una parcella pagata dal cliente e commissioni provenienti da terzi.

È tipico di chi svolge consulenza non indipendente ma cerca di dare un segnale di trasparenza, chiedendo anche una parte fissa per la propria attività.

È un compromesso tra vecchio e nuovo mondo: più trasparente del commission only, ma ancora legato a logiche di retrocessione.

Funziona bene solo se c’è chiarezza assoluta sulle fonti di guadagno e se il consulente rende conto periodicamente di quanto ha incassato da ogni parte.

Altrimenti il rischio è di creare confusione e alimentare il sospetto del cliente (“mi stai consigliando questo fondo perché ti conviene o perché conviene a me?”).

4. Fee offset: la parcella che si “autofinanzia”

Il modello fee offset è una sorta di versione evoluta del precedente.

Il consulente stabilisce una parcella annua chiara, ma qualsiasi commissione ricevuta da terzi viene restituita o scomputata dalla parcella del cliente.

In pratica, se il consulente riceve retrocessioni, queste vengono accreditate interamente al cliente, riducendo la parcella fino anche ad azzerarla.

È un sistema elegante e coerente con la logica dell’indipendenza, perché neutralizza il conflitto economico pur riconoscendo che, in certi mercati (pensiamo alle polizze vita o ai fondi esteri), le commissioni esistono comunque.

È un modello tecnicamente complesso — richiede precisione nella rendicontazione e trasparenza contrattuale — ma rappresenta una via di mezzo intelligente tra mondo fee-only e mercato reale.

5. Fee only: la vera consulenza indipendente

Infine, il modello più puro: fee only.

Il consulente è pagato solo dal cliente, con parcella diretta, senza ricevere alcuna provvigione o incentivo da intermediari.

Nessuna retrocessione, nessun conflitto, nessun dubbio su “da che parte sta”.

È il sistema adottato dai consulenti finanziari indipendenti e dalle Società di Consulenza Finanziaria (SCF) in Italia, come previsto dalla normativa MiFID II.

L’unica fonte di reddito è la fiducia del cliente e il valore percepito del servizio.

Dal punto di vista del cliente, questo è il modello più trasparente e coerente con l’interesse personale.

L’unico “ostacolo” è culturale: si paga una parcella esplicita, e non tutti sono abituati a riconoscere un costo per un servizio che, per decenni, è stato “incluso” nei prodotti finanziari.

Ma, in un mondo dove ogni costo nascosto erode rendimento, pagare in modo chiaro significa tenere in mano il volante delle proprie scelte.

In sintesi

Ogni modello ha una sua logica e una sua storia.

La differenza sta nel livello di trasparenza e nel grado di allineamento tra consulente e cliente.

ModelloChi pagaConflitto potenzialeTrasparenza
Commission onlyProduttoreAltoBassa
Fee & commissionCliente + produttoriMedioMedia
Fee offsetCliente (con accredito commissioni)BassoAlta
Fee on topClienteMedio-bassoAlta
Fee onlySolo clienteNessunoMassima

Attenzione agli incentivi nascosti: bonus, premi e obiettivi di rete

Anche quando il consulente applica una parcella diretta o un modello “ibrido”, se lavora per conto di una banca, di una SIM o di una compagnia assicurativa, la sua remunerazione può includere componenti variabili difficili da individuare.

Oltre alle commissioni e retrocessioni sui prodotti, infatti, molti intermediari riconoscono ai propri consulenti:

  • bonus di produzione, legati ai volumi di raccolta o alle vendite di determinati strumenti finanziari o polizze;
  • incentivi commerciali, che premiano il raggiungimento di target periodici o la promozione di specifiche linee di prodotto;
  • premi fedeltà o benefit aziendali, che possono includere vantaggi economici, viaggi o riconoscimenti di carriera.

Questi meccanismi non sono di per sé illeciti, ma possono generare conflitti d’interesse anche nei modelli di consulenza che sembrano “a parcella”.

Un consulente interno a una banca, ad esempio, potrebbe applicare una fee on top ma essere comunque incentivato a favorire i prodotti della propria casa.

La vera trasparenza non riguarda solo “quanto ti costa” la consulenza, ma da dove arrivano i guadagni di chi ti consiglia.

Un consiglio finale

Quando scegli un consulente, non chiedergli solo “quanto rende” o “quali prodotti usa”.

Chiedigli, con la stessa naturalezza:

“Come vieni remunerato? Da chi?”

La risposta ti dirà molto più di qualsiasi prospetto.

Perché la vera differenza, nel lungo periodo, non la fanno i mercati, ma la trasparenza del rapporto e la qualità dell’allineamento tra chi affida il proprio capitale e chi lo consiglia.

Portafogli “All Weather”: come investire senza temere le stagioni dei mercati

Ci sono momenti in cui i mercati sembrano vivere un’eterna primavera: le borse salgono, l’economia cresce, tutto fila liscio.

E poi ci sono i mesi, o gli anni, in cui arriva l’inverno: inflazione, tassi in rialzo, recessione, panico.

La verità è che nessuno può prevedere con certezza quando cambierà il “tempo” dei mercati. Ma si può fare una cosa molto più saggia: prepararsi a tutte le stagioni.

È questa l’idea alla base dei cosiddetti portafogli All Weather, o “portafogli per ogni clima”. Una filosofia d’investimento resa celebre da Ray Dalio, il fondatore di Bridgewater Associates, uno dei più grandi e sofisticati fondi del mondo.

Dalio, partendo da decenni di studio sui cicli economici, si pose una domanda semplice ma cruciale: è possibile costruire un portafoglio che non dipenda dalle previsioni, ma che si comporti bene in qualunque contesto economico?

Il cuore dell’idea: convivere con l’incertezza

Dalio individuò due forze fondamentali che muovono l’economia e, di conseguenza, i mercati finanziari: la crescita e l’inflazione.

A seconda che queste due variabili salgano o scendano, si alternano quattro “stagioni” economiche: ci sono periodi di crescita e inflazione in aumento (tipici dei boom), altri in cui la crescita rallenta ma i prezzi continuano a salire (stagflazione), altri ancora in cui l’economia si espande ma l’inflazione resta sotto controllo (espansione disinflazionistica), e infine quelli di vera e propria recessione.

L’intuizione fu capire che ogni fase favorisce asset diversi: le azioni tendono a prosperare quando l’economia cresce, le obbligazioni rendono meglio quando la crescita rallenta e i tassi scendono, l’oro e le materie prime difendono il potere d’acquisto quando l’inflazione corre.

Invece di tentare di indovinare in quale scenario ci troveremo domani, l’approccio All Weather parte da un’altra logica: distribuire il rischio in modo da essere preparati a tutti gli scenari.

Diversificare per rischio, non per capitale

Il punto chiave, spesso trascurato da molti investitori, è proprio questo: la vera diversificazione non consiste nel possedere tante cose diverse, ma nel bilanciare il peso che ciascun investimento ha sul rischio complessivo del portafoglio.

Nel classico portafoglio “60/40” — 60% azioni e 40% obbligazioni — la parte azionaria domina quasi interamente la volatilità. In pratica, anche se le azioni sono il 60% del capitale, rappresentano spesso il 90% del rischio.

Dalio ribaltò questa prospettiva con la cosiddetta risk parity, la parità del rischio: ogni classe di investimento deve contribuire in modo equilibrato all’andamento del portafoglio.

Per questo motivo, un portafoglio All Weather tende a essere molto più bilanciato. Le azioni sono presenti, ma non predominanti. Le obbligazioni — specie quelle a lungo termine — hanno un ruolo più importante, perché si comportano bene nei momenti in cui le azioni soffrono. Oro e materie prime servono a difendersi dai periodi di inflazione.

Non si tratta di “scommettere” su cosa accadrà, ma di costruire un equilibrio dinamico, in grado di attraversare le diverse fasi economiche senza farsi travolgere.

Un equilibrio che si ispira alla natura

Il paragone con il clima non è casuale: un portafoglio All Weather è come un ecosistema.

In estate, alcune piante crescono rigogliose; in inverno, altre resistono al gelo. L’importante è che l’insieme resti vivo, che non si esaurisca tutto in una sola stagione.

Allo stesso modo, il portafoglio All Weather cerca di mantenere una crescita sostenibile e stabile nel tempo, senza picchi e senza crolli drammatici.

Non promette rendimenti stellari, ma offre qualcosa di più prezioso: resilienza.

La capacità di continuare a funzionare anche quando il mondo là fuori sembra impazzire.

E nella pratica, come si costruisce?

La versione “semplificata” del portafoglio All Weather, quella più conosciuta dagli investitori privati, prevede una distribuzione indicativa di questo tipo: una parte in azioni (circa il 30%), una quota importante in obbligazioni di lungo periodo (circa il 40%), un piccolo cuscinetto in obbligazioni di breve termine (intorno al 15%), e due tasselli di protezione: oro e materie prime (7,5% ciascuno).

È una struttura pensata per reagire a contesti diversi: le azioni offrono crescita, i bond difendono nei periodi di deflazione, oro e materie prime proteggono dall’inflazione.

Naturalmente, le proporzioni possono essere adattate al profilo di rischio dell’investitore, alle condizioni di mercato e alla disponibilità di strumenti efficienti come ETF o fondi indicizzati.

Ma la filosofia resta la stessa: un portafoglio costruito per durare, non per correre.

I vantaggi (e i limiti) di un approccio “senza previsioni”

Il grande merito di questo metodo è la stabilità.

In un mondo dominato da notizie, volatilità e decisioni impulsive, un portafoglio All Weather offre un ancoraggio razionale.

Riduce la dipendenza dal “tempismo” di mercato e, soprattutto, protegge l’investitore da se stesso — dal panico nei momenti difficili e dall’euforia nei momenti di eccesso.

Non è però un portafoglio magico.

In fasi particolari, come quelle di inflazione elevata e tassi in rialzo — come abbiamo visto negli ultimi anni — anche le obbligazioni possono soffrire. E nessuna strategia può annullare completamente il rischio.

Ma il principio che incarna è valido sempre: non serve prevedere il futuro per essere preparati al futuro.

Una lezione di educazione finanziaria

Alla fine, il portafoglio All Weather non è soltanto un modello d’investimento. È una lezione di metodo, di equilibrio e di consapevolezza.

Ci ricorda che la finanza non è una corsa a chi indovina di più, ma una disciplina di gestione del rischio.

Investire non significa scegliere “il cavallo vincente”, ma costruire un sistema che sappia sopravvivere anche quando i cavalli cambiano.

In altre parole: non possiamo controllare il meteo dei mercati, ma possiamo scegliere di uscire di casa con l’abito giusto.

Residenti all’estero e portafoglio titoli in Italia: ciò che molti ignorano sulla tassazione

Residenti all’estero e portafoglio titoli in Italia: ciò che molti ignorano sulla tassazione

Trasferirsi all’estero è spesso l’inizio di una nuova vita. Chi possiede investimenti in Italia, però, si imbatte presto in un dubbio cruciale:

“Posso mantenere il regime amministrato sul mio portafoglio titoli o devo passare al dichiarativo?”

La risposta, chiara ma sorprendentemente poco conosciuta, è arrivata di recente dall’Agenzia delle Entrate.

Chiarimento dell’Agenzia delle Entrate

Con la Risposta n. 208/2025, l’Amministrazione finanziaria ha ribadito tre punti chiave:

  • Continuità del regime amministrato – Anche chi diventa fiscalmente non residente può mantenere senza problemi il regime amministrato sul deposito titoli presso banche o SIM italiane.
  • Nessun obbligo di passaggio al dichiarativo – Non è necessario affrontare la complessità della dichiarazione dei redditi per ogni operazione.
  • Revoca neutrale – Se si decide di revocare il regime amministrato, non scatta alcuna tassazione sulle plusvalenze latenti.

Queste indicazioni confermano che la normativa può differire dalle prassi ancora diffuse tra alcuni operatori.

Un principio già noto da tempo

Non si tratta di una novità. Già la circolare del Ministero delle Finanze n. 165/1998 chiariva che, per i non residenti, il regime amministrato è il “regime naturale”.

Il riferimento normativo resta il d.lgs. n. 461/1997, che disciplina la tassazione dei redditi finanziari senza limitazioni per chi risiede all’estero.

Eppure, in molti ambienti bancari e consulenziali persiste l’errata convinzione che il regime amministrato sia riservato solo ai residenti in Italia. Un equivoco che ha indotto numerosi investitori a scelte non ottimali, tra burocrazia inutile e maggiori costi di compliance.

Regime amministrato: vantaggi e limiti

Per un risparmiatore che vive all’estero, il regime amministrato resta un’opzione pratica perché:

  • Semplifica la gestione fiscale: la banca italiana funge da sostituto d’imposta e trattiene direttamente le imposte su interessi, dividendi e plusvalenze.
  • Taglia il rischio di errori e sanzioni: non occorre compilare il quadro RW né presentare dichiarazioni fiscali in Italia per i redditi già tassati alla fonte.

Questa efficienza riduce burocrazia e adempimenti, ma non sempre è la scelta fiscalmente più vantaggiosa.

Quando il regime dichiarativo può convenire

Se il Paese di residenza applica un’aliquota sulle rendite finanziarie più bassa di quella italiana (26% su capital gain e interessi, 12,5% su titoli di Stato), il regime dichiarativo può risultare più conveniente:

  • consente di assoggettare i redditi finanziari alla tassazione del Paese estero, eventualmente più favorevole;
  • permette una gestione più flessibile di crediti d’imposta o compensazioni previste dalle convenzioni contro le doppie imposizioni.

La scelta, quindi, non è solo tra semplicità e complessità, ma tra comodità e ottimizzazione fiscale.

Conclusione: la strategia giusta è personale

In un mondo globale, conoscere le regole è essenziale per evitare decisioni penalizzanti.

Chi si trasferisce all’estero non perde il regime amministrato: la normativa lo consente espressamente.

La domanda vera è un’altra: qual è il regime più vantaggioso per il mio profilo e per il Paese in cui vivo?

Per rispondere servono:

  • analisi delle aliquote nel Paese di residenza,
  • verifica della convenzione contro le doppie imposizioni,
  • valutazione degli obiettivi patrimoniali e successori.

Prossimo passo

Prima di decidere, effettua un check-up fiscale personalizzato. Confrontare le aliquote del tuo Paese di residenza con quelle italiane e simulare i due regimi può trasformare una semplice “conferma normativa” in una strategia patrimoniale vincente.

La certificazione CFP® e il valore della consulenza finanziaria qualificata

La certificazione CFP® e il valore della consulenza finanziaria qualificata

Quando si parla di risparmi, investimenti e progetti di vita, la scelta del professionista a cui affidarsi è decisiva. Molti si presentano come “consulenti finanziari”, ma non tutti hanno la stessa preparazione né rispondono a standard rigorosi di competenza ed etica. In questo scenario, una credenziale spicca come segno distintivo di qualità e indipendenza: la CFP® – Certified Financial Planner, riconosciuta in oltre venticinque Paesi come la qualifica di riferimento per chi si occupa di pianificazione finanziaria personale. In Italia i professionisti che hanno ottenuto questa certificazione sono soltanto 131, un numero che sottolinea quanto il percorso sia selettivo e quanto il titolo rappresenti un elemento di reale differenziazione.

Un marchio internazionale che garantisce qualità

La certificazione CFP® non è un semplice attestato, ma un marchio registrato e tutelato dal Financial Planning Standards Board (FPSB), organizzazione internazionale con sede a Denver e rappresentanze in tutto il mondo, tra cui FPSB Italia, unico ente autorizzato a rilasciarla nel nostro Paese. Per ottenerla non basta superare un esame accademico: occorre dimostrare, attraverso una prova pratica su casi reali, di saper affrontare in modo integrato tutti gli aspetti della vita finanziaria, dagli investimenti alla previdenza, dalla protezione assicurativa alla fiscalità e al passaggio generazionale. Il candidato deve seguire un percorso formativo accreditato da FPSB Italia – offerto da università, ordini professionali o scuole specializzate – e maturare un bagaglio di esperienza concreta, pari ad almeno tre anni di attività nel settore (o un anno sotto supervisione). L’impegno non termina con la certificazione: chi ottiene il titolo è tenuto a un aggiornamento permanente, che prevede formazione annuale e un focus obbligatorio su temi etici, così da garantire una consulenza sempre attuale e allineata ai continui cambiamenti dei mercati e della normativa.

Questa preparazione si traduce in un approccio profondamente diverso rispetto a quello di chi si limita a collocare prodotti finanziari. Un consulente CFP® parte dall’analisi del patrimonio complessivo, degli obiettivi di vita, del flusso di redditi e delle eventuali vulnerabilità del cliente, per costruire una strategia personalizzata che unisca investimenti, previdenza, protezione dai rischi e pianificazione successoria. Il risultato non è una semplice lista di fondi o polizze, ma un piano finanziario integrato e aggiornabile, capace di evolvere con la vita della persona: un documento vivo che accompagna l’intero percorso, dalla definizione degli obiettivi fino al monitoraggio costante e all’adattamento alle nuove esigenze.

A rendere ancora più solida questa garanzia interviene il codice etico internazionale che ogni professionista certificato è tenuto a rispettare. Chi porta il titolo CFP® deve dichiarare eventuali conflitti d’interesse, essere trasparente sui costi e mantenere come priorità assoluta gli obiettivi del cliente. Non si tratta di una mera formalità: eventuali violazioni comportano sanzioni severe, fino alla revoca della certificazione. Per il cliente questo si traduce in una tutela concreta, che va ben oltre la semplice immagine professionale.

La pianificazione finanziaria: il cuore del servizio

La pianificazione finanziaria, d’altronde, è molto più di un esercizio tecnico: è il mezzo per trasformare desideri e progetti in strategie concrete. Il processo definito da FPSB si articola in sei passaggi, dalla definizione del rapporto tra consulente e cliente alla raccolta dei dati e degli obiettivi, dall’analisi e valutazione della situazione alla presentazione delle raccomandazioni, fino all’attuazione del piano e al suo monitoraggio nel tempo. Che si tratti di acquistare una casa, finanziare l’istruzione dei figli, pianificare la pensione o organizzare un passaggio generazionale, il consulente CFP® guida ogni fase con metodo e visione d’insieme, aiutando a dare struttura e continuità alle scelte economiche.

I benefici documentati: più sicurezza, più serenità

La validità di questo approccio è confermata da una ricerca globale condotta da FPSB in collaborazione con la società MYMAVINS, che ha coinvolto oltre 15.000 consumatori in 15 Paesi. I risultati sono eloquenti: il 38% dei clienti riporta un miglioramento del benessere finanziario e della tranquillità mentale, il 37% una maggiore fiducia nelle proprie decisioni economiche, il 36% una migliore comprensione delle questioni finanziarie. Più della metà degli intervistati (51%) afferma che la pianificazione finanziaria ha avuto un effetto positivo sulla salute mentale e sulla vita familiare. E i benefici non riguardano solo i più abbienti: tra i clienti con redditi inferiori a 60.000 dollari annui, il 46% segnala un impatto positivo sulla salute mentale e il 44% un miglioramento della vita familiare. Il dato forse più significativo riguarda la fiducia: il 95% dei clienti si fida del proprio financial planner, una percentuale che sale al 98% tra chi lavora con un professionista CFP®, e chi si affida a un CFP® dichiara una qualità della vita, una sicurezza finanziaria e una soddisfazione nettamente superiori rispetto a chi si rivolge ad altri consulenti o non riceve alcuna consulenza. Non a caso il 72% delle persone che non hanno mai usufruito di un servizio di pianificazione finanziaria intende farlo, e oltre la metà prevede di compiere questo passo entro tre anni.

Una scelta di fiducia e lungimiranza

In un contesto di mercati complessi, cambi normativi frequenti e abbondanza di offerte, affidarsi a un Certified Financial Planner significa scegliere un professionista che unisce competenza tecnica, aggiornamento costante e responsabilità etica. Per chi desidera gestire il proprio patrimonio con consapevolezza, pianificare la pensione o preparare un passaggio generazionale senza sorprese, la sigla CFP® rappresenta un marchio di qualità e indipendenza su cui costruire il proprio futuro finanziario: una scelta di fiducia e lungimiranza che fa la differenza tra un semplice investimento e un vero progetto di vita.