C’è una domanda che, dopo vent’anni di attività, continua a tornarmi davanti come un pendolo: perché continuiamo a vendere quando i mercati crollano e comprare quando sono ai massimi?
Non c’è curriculum, esperienza o bravura che tenga: nel momento in cui il denaro è in gioco, l’essere umano torna ad agire come nei primi millenni della propria storia, guidato dall’istinto prima ancora che dalla logica.
Gli investimenti, più che matematica e finanza, sono una sfida tra noi e le nostre emozioni. E spesso, a vincere, non siamo noi.
Nel mio lavoro — e nei tanti confronti come Opinion Reader sulle pagine de Il Sole 24 Ore — vedo continuamente lo stesso schema: persone colte, preparate, attente, che in situazioni normali ragionano con lucidità, ma che davanti a un -5% improvviso sul portafoglio diventano irrequiete, impulsive, vulnerabili.
E non perché “non capiscano i mercati”, ma perché cadono vittime di alcuni meccanismi psicologici profondamente radicati: i bias cognitivi.
Vorrei raccontarti i cinque più frequenti. Non in forma di elenco, ma come li vedo io ogni giorno nella pratica: piccole crepe nella nostra razionalità che, se non controllate, possono trasformarsi in vere e proprie voragini finanziarie.
La Loss Aversion: la trappola emotiva più costosa
La perdita pesa più del guadagno. Non è un modo di dire, è un fatto: il dolore causato da una perdita è psicologicamente più intenso della soddisfazione generata da un guadagno equivalente.
Per questo, quando i mercati traballano, anche il più disciplinato degli investitori inizia a percepire la situazione come una minaccia personale.
La Loss Aversion è come quella voce interiore che, nei momenti di panico, ti suggerisce di “tagliare le perdite prima che sia troppo tardi”. Una voce comprensibile, umana. Ma finanziariamente devastante: le grandi perdite non nascono dal rimanere investiti, bensì dall’uscire nei momenti peggiori.
L’Overconfidence: quando pensiamo di vedere più lontano degli altri
L’overconfidence non è arroganza; è molto più subdola. È quella sensazione che ci pervade dopo un paio di decisioni azzeccate: “Sto capendo come si muove il mercato.”
E da lì, passo dopo passo, il rischio di esporci troppo aumenta.
Durante le fasi di rialzo prolungato, questo bias prende spesso il comando. L’investitore che per mesi ha visto solo salite inizia a sentirsi più abile, più lucido, più “sintonizzato”. Finché il mercato non decide di ricordargli che la finanza non premia la sicurezza, ma la disciplina.
Ho imparato che l’overconfidence è simile al mare calmo: sembra rassicurante, ma è proprio lì che gli esperti iniziano a preoccuparsi.
Il Recency Bias: il presente come unica verità
Lo vediamo continuamente: due anni di rialzi fanno credere che il mercato sia destinato a crescere per sempre; due mesi di ribassi fanno immaginare un precipizio senza fine. Questo bias è il motivo per cui molti investitori si lasciano trasportare dalla narrativa del momento: euforia o disperazione, non importa. Il presente diventa l’intero orizzonte mentale.
Il paradosso è che basterebbe guardare un grafico di lungo periodo per ricordare una verità semplice: i mercati oscillano, sempre, e le fasi negative sono la norma, non l’eccezione.
Il Recency Bias ci fa vivere solo nel “qui e ora”, e l’investimento, invece, è l’arte del “là e allora”.
L’Herding: la paura di essere l’unico nel deserto
Siamo animali sociali. E anche nel mondo finanziario il bisogno di appartenere a un gruppo influenza profondamente il nostro comportamento.
Lo vedo soprattutto nei momenti di grande moda o grande panico: “Se tutti stanno comprando, avranno capito qualcosa”, oppure “Se tutti vendono, meglio farlo anche io.” Eppure la storia ci racconta tutt’altro: la massa arriva sempre tardi. Sempre. Il gregge segue l’entusiasmo e fugge dalla paura, ma raramente prende decisioni sagge. Il punto è che andare controcorrente non è facile: richiede lucidità, metodo, e un certo livello di solitudine intellettuale.
Ma nel lungo periodo, è proprio quella solitudine che paga.
Il Confirmation Bias: la gabbia invisibile delle convinzioni
È forse il più pericoloso, perché è il più sottile: cerchiamo informazioni che confermino ciò che già pensiamo, ignorando tutto il resto.
Così, chi è convinto che un settore esploderà leggerà solo articoli che ne confermano il potenziale; chi teme l’inflazione cercherà solo analisi catastrofiche; chi ama l’oro troverà solo studi che lo incoronano “bene rifugio eterno”.
La mente fa quello che le riesce meglio: protegge le proprie convinzioni. Ma negli investimenti, proteggere un’idea può voler dire distruggere un portafoglio.
Il vero antidoto? Una pianificazione che anticipa le tue emozioni
Non esiste un investitore che sia completamente immune dai bias cognitivi. Nemmeno io, nonostante la mia esperienza. La differenza non sta nel non provare certe emozioni, ma nel non lasciare che siano loro a decidere. Una buona pianificazione finanziaria serve esattamente a questo: a costruire un ponte tra te e i tuoi obiettivi, abbastanza solido da resistere alle tempeste emotive.
È un processo fatto di metodo, revisione, controllo, ma soprattutto di consapevolezza. Perché il primo vero rischio, negli investimenti, non è la volatilità dei mercati. È la volatilità delle nostre emozioni.
Conclusione
Siamo costruiti per sopravvivere, non per investire.
La mente umana è progettata per reagire rapidamente alle minacce, non per gestire flussi di dati, previsioni e incognite globali.
Ma con metodo, conoscenza e un accompagnamento professionale indipendente — libero da pressioni commerciali — è possibile neutralizzare questi automatismi e trasformare il tuo portafoglio in uno strumento che lavora per te, e non contro di te.
Gli investimenti migliori non sono quelli che ti fanno brillare gli occhi per un trimestre.
Sono quelli che ti permettono di dormire tranquillo per anni.
OCF n. 2425 del 19/03/2024
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