A fine 2001, mentre in Europa si brindava all’arrivo dell’euro, dall’altra parte dell’Atlantico l’Argentina precipitava in una crisi che avrebbe segnato la storia finanziaria moderna. Il 23 dicembre il governo di Buenos Aires annunciò che non avrebbe rimborsato circa 95 miliardi di dollari di debito: il più grande default sovrano dell’epoca.
Per migliaia di famiglie italiane, che avevano acquistato i cosiddetti Tango Bond, fu un risveglio traumatico: in poche settimane titoli che sembravano sicuri persero gran parte del loro valore.
Un cambio fisso che divenne una trappola
Negli anni Novanta l’Argentina aveva scelto una strada affascinante ma rischiosa: ancorare il peso al dollaro con un tasso di cambio fisso di uno a uno. All’inizio fu un successo. L’inflazione, che nel 1989 superava il 3.000%, crollò sotto il 5%.
Ma la rigidità di quel meccanismo, unita a spesa pubblica generosa e riforme incompiute, si trasformò in un cappio. Tra il 1998 e il 2001 l’economia entrò in recessione: –3,4% nel 1999, –0,8% nel 2000, –4,4% nel 2001. Il Brasile, principale partner commerciale, svalutò la sua moneta, rendendo le esportazioni argentine circa 30% più care. Nel frattempo il debito pubblico saliva dal 29% del PIL nel 1991 a circa 62% nel 2001, e oltre il 70% era denominato in dollari: una bomba a orologeria.
Le riserve in valuta, che nel 1999 erano di 27 miliardi di dollari, scesero a circa 10 miliardi. I tassi d’interesse esplosero fino al 40% e i capitali fuggirono. A dicembre 2001 il governo impose il corralito, bloccando i conti bancari: un gesto che sancì la fine del sogno della convertibilità.
La seduzione dei Tango Bond
In quegli stessi anni l’Argentina aveva finanziato il proprio debito collocando obbligazioni sui mercati internazionali.
Le cedole, tra il 7% e l’11%, erano un richiamo irresistibile per risparmiatori europei abituati a rendimenti più modesti. Molte banche italiane ed europee proposero i bond con entusiasmo, spesso senza spiegare appieno i rischi legati a un Paese emergente in difficoltà.
Indagini successive hanno rivelato che diversi istituti, oltre a collocare i titoli, ne approfittarono per alleggerire i propri portafogli, trasferendo il rischio sui clienti. Le commissioni di collocamento potevano arrivare all’1,5% del valore nominale: un incentivo non trascurabile.
Eppure i segnali d’allarme c’erano. Nell’estate 2001 le agenzie di rating avevano già abbassato il giudizio dell’Argentina a “B”, categoria speculativa. Ma la promessa di rendimenti elevati offuscò l’attenzione di molti.
Dalle cedole al tracollo
Nei mesi che precedettero il default i principali titoli argentini scambiavano intorno a 70–80 centesimi per ogni dollaro di valore nominale, con differenze tra scadenze e valute.
Dopo l’annuncio di insolvenza, tra fine 2001 e i primi mesi del 2002, i prezzi crollarono rapidamente sotto i 30 centesimi, e in alcuni casi – per le emissioni più lunghe e meno liquide – toccarono anche i 15–20 centesimi.
Per gli investitori italiani, che detenevano complessivamente circa 12 miliardi di dollari in questi titoli, le perdite furono enormi.
Solo dopo lunghe trattative, le ristrutturazioni del 2005 e del 2010 offrirono nuovi titoli con un recupero medio del 30–35% del valore originario: ben poco per chi aveva creduto di avere in mano un investimento “tranquillo”.
Il mito del titolo di Stato “sicuro al 100%”
Forse la lezione più importante che l’Argentina lasciò ai risparmiatori fu proprio questa: un titolo di Stato non è per definizione privo di rischio.
L’idea, diffusa soprattutto tra il pubblico retail, che le obbligazioni governative siano sempre “sicure” è stata smentita in modo clamoroso. Il rischio sovrano esiste e può materializzarsi anche in Paesi con un’economia di medie dimensioni, se il debito è insostenibile, se le riserve si esauriscono o se la politica diventa instabile.
L’esperienza argentina dimostrò che l’affidabilità di un’emissione non dipende dalla natura “pubblica” del debitore, ma dalla solidità delle finanze e dalla credibilità delle istituzioni che lo sostengono.
Lezioni che parlano al presente
Quella vicenda, a più di vent’anni di distanza, resta una bussola per ogni risparmiatore.
La prima lezione è che il rendimento “facile” nasconde sempre un rischio proporzionato: nessuna cedola sopra la media è gratuita.
La seconda è che la diversificazione geografica e valutaria non è un consiglio accademico, ma una regola di sopravvivenza: concentrare i risparmi su un singolo Paese o su una sola valuta può essere fatale.
Infine, l’episodio ha mostrato quanto sia importante la consulenza indipendente. All’epoca la normativa europea non imponeva i controlli di adeguatezza oggi previsti dalla MiFID, e molti risparmiatori furono lasciati soli a decifrare rischi che neppure le agenzie di rating avevano valutato con prontezza.
Il default argentino non fu un fulmine a ciel sereno: i numeri – debito crescente, riserve in caduta, declassamenti – parlavano chiaro già mesi prima. Ignorarli costò caro a chi, attratto dalle sirene dei Tango Bond, scambiò per sicurezza ciò che era solo un fragile equilibrio. Una lezione che, in un mondo di mercati globali e rendimenti sempre più compressi, resta più attuale che mai.
OCF n. 2425 del 19/03/2024
P. IVA 10577390585